La lotta fra poveri del pubblico impiego
Il decreto legge 101/2013 (il cosiddetto “decreto D’Alia”), relativo alla razionalizzazione della PA è stato convertito ed è ormai legge dello Stato. Di questo complesso e tormentato provvedimento mi interessa qui parlare della vexata quaestio che ruota intorno ai precari nel pubblico impiego. Premesso che a mio parere il Decreto legge 101 è un buon compromesso, probabilmente il migliore possibile oggi ed è dettato da sano buon senso, esso non può che mettere in evidenza un conflitto di fondo che sarà bene chiarire e su cui è necessario farsi un’idea.
6 Novembre 2013
Carlo Mochi Sismondi
Il decreto legge 101/2013 (il cosiddetto “decreto D’Alia”), relativo alla razionalizzazione della PA è stato convertito ed è ormai legge dello Stato. Di questo complesso e tormentato provvedimento mi interessa qui parlare della vexata quaestio che ruota intorno ai precari nel pubblico impiego. Premesso che a mio parere il Decreto legge 101 mi sembra un buon compromesso, probabilmente il migliore possibile oggi e dettato da sano buon senso, esso non può che mettere in evidenza un conflitto di fondo che sarà bene chiarire e su cui è necessario farsi un’idea.
Prima i fatti, poi le opinioni; esaminiamo quindi con occhi onesti qualche evidenza (su cui ci eravamo già soffermati):
1. I dipendenti pubblici non sono troppi: in Italia (14,8% rispetto al totale degli occupati) sono in numero minore sul totale degli occupati se raffrontati agli altri Paesi (Francia: 20%, UK 19,2%) e sono molto meno anche in termini assoluti: 3,4 milioni (5,6% pop) in Italia contro i 5,5 milioni in Francia (8,3% pop.) e i 5,7 milioni in UK (10,9% pop.);
2. Ma sono mal distribuiti: si passa dal 13 % di impiegati pubblici sul totale degli occupati in Calabria al 6% della Lombardia; ma la mobilità praticamente assente: nel 2011 solo un dipendente su mille ha cambiato amministrazione e uno su cento ha cambiato ufficio, e tutti su richiesta volontaria;
3. Sono anche molto “vecchi” : In Francia il 28% dei lavoratori pubblici ha meno di 35 anni, in UK sono il 25%, ma in Italia solo il 10%. E la percentuale di impiegati sotto i 25 anni, ossia assunti direttamente dall’Università, è praticamente nulla (1,3% e solo nelle carriere militari);
4. …e meno qualificati: hanno la laurea solo il 34% degli impiegati pubblici, contro ad es. il 54% dei loro colleghi della Gran Bretagna.
5. I precari nella PA, esclusa la scuola, sono circa 122.000 e non sono affatto diminuiti, nonostante tutte le successive stabilizzazioni e norme che ne avrebbero impedito l’assunzione (nel 2007 erano diecimila in meno). Il che fa pensare che stiamo cercando di fermare la marea con le mani. La maggior parte di loro è essenziale per far funzionare le amministrazioni;
6. I vincitori di concorso non assunti che il decreto prende in considerazione sono circa 70.000 considerando i concorsi dal 2008 e non hanno, dal punto di vista strettamente giurisprudenziale, diritto al posto; ma ne hanno pieno diritto dal punto di vista della giustizia, della logica e della responsabilità politica;
7. Il numero dei giovani potenzialmente interessati ad entrare nella PA è enorme, ma è stato addirittura inasprito il blocco del turnover, sia pure con qualche eccezione per gli enti virtuosi, che è ora al 20% delle uscite per il 2013 e 2014, al 40% per il 2015, al 60% per il 2016, all’80% per il 2017 e al 100% solo nel 2018 (a meno di nuove strette)
8. A fronte delle aspettative di centinaia di migliaia di giovani le assunzioni possibili non supereranno quindi le 10-12.000 unità per il 2014 a poco più del doppio nel 2015 e così via. Questo a legislatura vigente. La stragrande maggioranza resterà quindi a bocca asciutta.
Ora tre brevi considerazioni personali:
- E’ assolutamente necessario ripensare la geografia delle amministrazioni sulla base dei compiti e delle missioni ad esse assegnati e non sulla base di uno status quo nato in un mondo ormai passato. Solo dopo potremo dire se i dipendenti pubblici vanno aumentati, portandoli al livello della altre amministrazioni europee, diminuiti, perché ad esempio abbiamo deciso di ridurre il perimetro dell’azione pubblica, o lasciati stabili.
- Comunque sia, abbiamo senz’altro bisogno di un ricambio generazionale. Sia per introdurre professionalità diverse e maggiormente qualificate, sia per inserire giovani, cosa che non è solo doverosa in presenza di una scandalosa e insostenibile disoccupazione giovanile, ma anche necessaria per non blaterare di innovazione, ma per farla davvero. Senza una coraggiosa azione di accompagnamento all’uscita del personale meno qualificato e più anziano credo che continueremo a pestare l’acqua nel mortaio. Costa, ma vi assicuro che costa molto di più non farlo.
- Pensare all’impiego a tempo indeterminato come unica forma di assunzione nel pubblico impiego non è solo anacronistico, è sbagliato per definizione in un mondo che cambia così velocemente e in cui l’unica cosa che resta per sempre è l’ufficio dello statale (nella maggior parte dei casi non cambia neanche la scrivania da quando entra a quando va in pensione). Non solo è, come abbiamo visto, del tutto irrealizzabile. Fa parte delle leggende metropolitane come dire che la consulenza (quella buona, non i portaborse o i clientes mascherati) avvilisce le professionalità interne o che la formazione sia uno spreco insostenibile da tagliare perché tanto non serve a nulla. Sarebbe più sensato, piuttosto che negarle come don Ferrante, regolamentare le forme flessibili, limitarle alle situazioni di effettiva necessità, non usare il tempo determinato per bisogni stabili e soprattutto, fare i patti chiari e non indurre aspettative impossibili di “todos caballeros”.
- Non agire con coraggio, non solo sposta in avanti il problema aggravandolo, ma rischia di mettere in atto una guerra tra poveri in cui i precari, i vincitori di concorso e i giovani bravi e volenterosi che vogliono entrare nella PA si trovino non insieme per disegnare un Paese migliore, ma gli uni contro gli altri a litigarsi pezzetti di sicurezza.