La mancata soppressione delle province e il gioco delle parti

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Dopo il corsivo di Tiziano Marelli della settimana scorsa, torniamo sul tema delle Province e della loro eventuale abolizione, grazie ad un articolo inviatoci da Alberto Stancanelli e pubblicato lo scorso 12 luglio sul sito dell’Associazione Italia Futura. Lo pubblichiamo volentieri, aspettando anche ulteriori commenti, fermamente convinti che posizioni differenti possano contribuire ad alimentare una discussione proficua sul tema dell’innovazione nella PA anche dal punto di vista degli assetti istituzionali.

19 Luglio 2011

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Luigi Ferdinando Nazzaro e Alberto Stancanelli*

Articolo FPA

Dopo il corsivo di Tiziano Marelli della settimana scorsa, torniamo sul tema delle Province e della loro eventuale abolizione, grazie ad un articolo inviatoci da Alberto Stancanelli e pubblicato lo scorso 12 luglio sul sito dell’Associazione Italia Futura. Lo pubblichiamo volentieri, aspettando anche ulteriori commenti, fermamente convinti che posizioni differenti possano contribuire ad alimentare una discussione proficua sul tema dell’innovazione nella PA anche dal punto di vista degli assetti istituzionali.

Con la prima scheda pubblicata lo scorso 20 aprile nell’Osservatorio sui costi della politica, ci siamo chiesti che fine avessero fatto i disegni di legge di soppressione delle province presentati da numerosi parlamentari, di entrambi gli schieramenti, mai discussi dalle camere.
Ebbene, abbiamo avuto le prime risposte. Nel giro di meno di un mese il Parlamento ha votato contro l’abolizione delle province per ben due volte. Si sono trovate d’accordo sulla questione quasi tutte le forze politiche, con l’eccezione dei proponenti e pochi altri parlamentari.
Non che l’abolizione delle province, o almeno l’avvio dell’iter legislativo finalizzato alla cancellazione della norma costituzionale, sia semplice e risolutivo di tutti i mali e i costi legati alla politica. Peraltro questo livello istituzionale territoriale non è mai stato, a torto o a ragione, visto dagli italiani come un ente indispensabile al sistema federale o di decentramento.

Tuttavia oggi ci saremmo aspettati un segno tangibile della volontà concreta di eliminazione delle province da più parti sbandierata, ma così non è stato. Dobbiamo prendere atto della completa incapacità dell’attuale classe politica di riformare se stessa. Troppi interessi, troppe nomine connesse a incarichi in enti e società pubbliche, troppi posti di lavoro da spartire tra gli adepti, troppi soldi da distribuire, per rinunciare a cuor leggero a 107 enti provinciali (e che diventano potenzialmente sempre di più, visto che i nostri politici sono sempre pronti a presentare disegni di legge per la costituzione di nuove province).

Ferma restando l’istituzione delle città metropolitane, già prevista dalla legge, e sulla quale si stanno accumulando ulteriori colpevoli ritardi, non vogliamo qui ripetere quanto costano le province e quanto si potrebbe risparmiare dalla loro soppressione. Numerosi sono gli studi in argomento, con cifre e dettagli, basti vedere, da ultimo, quello della UIL o il sito dell’UPI (unione delle province d’Italia). Non è questo il problema principale, anche perché non abbiamo mai considerato i conseguenti risparmi determinanti per le sorti della finanza pubblica. La soppressione delle province costituirebbe un fatto concreto della capacità della politica di rispondere alla richiesta di credibilità e affidabilità della stessa politica che viene dai cittadini in un momento in cui proprio ai cittadini si chiede sempre di più di sostenere la crisi del sistema economico e finanziario del nostro Paese.
Né può essere considerata degna di nota l’obiezione, più volte sentita, che il costo maggiore è costituito dalla spesa per il personale e che quindi i risparmi sarebbero ben poca cosa visto che i dipendenti non si possono (ovviamente) licenziare.
A tal proposito basti solo notare come il trasferimento dei dipendenti provinciali presso altri enti, seguendo il criterio delle funzioni trasferite, produrrebbe la soppressione di tutti gli uffici duplicati (es. personale, affari generali, contratti, economato, bilancio, staff politici etc.) circostanza che già di per sé costituirebbe un risparmio consistente, in quanto i dipendenti attualmente adibiti all’esercizio di dette funzioni ben potrebbero essere destinati ad altre più proficue attività negli enti di destinazione.
L’utilizzo del personale proveniente dalle province soppresse sul territorio provinciale o regionale (nessuno pensa a deportazioni di massa dei dipendenti provinciali) sarebbe, inoltre, una vera manna per quegli enti che li assorbono, considerando le forti restrizioni alle assunzioni previste dalla legislazione più recente, alleviando così la sete di personale dovuta al blocco del turn over.

Senza contare, infine, che un risparmio consistente e soprattutto “politicamente corretto” deriverebbe dalla riduzione degli apparati politici e delle connesse spese di staff e rappresentanza degli organi istituzionali provinciali.

Ma vi è di più. Ci sono due annotazioni che crediamo abbiano un peso indiscutibile.
La prima: non è comprensibile che uno schieramento politico voti contro la realizzazione di un punto che appartiene al proprio programma di governo (eliminazione delle province "inutili") sul quale ha chiesto e ottenuto il voto della maggioranza (politica) degli italiani.
La seconda: ciò che non convince è la motivazione addotta da quella parte politica che ha dichiarato: “un legislatore non segue gli umori, deve guardare ai costi, all’efficienza”. E ancora: “eliminare dalla Costituzione la parola province? Eppoi chi si occupa di strade, scuole, discariche, acqua, urbanistica”.

La politica ci ha già dimostrato che non segue gli “umori”, basta ricordare come ha dato seguito al risultato referendario che ha abolito il Ministero dell’agricoltura! Forse si tralascia l’evidenza che una norma di legge non si occupa del dettaglio. La norma detta il principio: l’abolizione delle province, nello specifico. Poi sono i successivi atti di natura regolamentare che disciplinano in concreto le questioni tecnico-giuridiche connesse alla disposizione generale, risolvendo i problemi attuativi legati al trasferimento delle funzioni ad altri enti.

In ogni caso, tanto per essere concreti, le soluzioni esistono: la gestione delle strade provinciali potrebbe essere attribuita (o meglio riattribuita) all’ANAS; l’edilizia scolastica al comune territorialmente competente, con una pianificazione regionale anche delle risorse; le problematiche legate alla programmazione del ciclo dei rifiuti ben potrebbero rientrare nelle competenze regionali e la gestione operativa essere affidata ai comuni; così come le funzioni legate alle risorse idriche ed energetiche; il comune territorialmente competente potrebbe implementare le proprie competenze in materia di viabilità e trasporti, nell’ambito di una più ampia pianificazione regionale; le competenze in materia di mercato del lavoro potrebbero essere attribuite al comune già capoluogo di provincia; la regione potrebbe assumere le competenze in materia di parchi, riserve naturali, caccia e pesca; per l’urbanistica già oggi la competenza è ripartita principalmente tra Regione e comune, senza contare che molte attività in materia di autorizzazioni oggi attribuite o delegate alle province potrebbero essere liberalizzate.
Alla scadenza naturale di ogni consiliatura provinciale la Regione potrebbe nominare un commissario per la liquidazione del patrimonio dell’ente e delle società provinciali e per il trasferimento in mobilità presso altre amministrazioni del personale; entro sei mesi dalla soppressione della provincia il presidente della regione potrebbe individuare gli enti e le società e partecipazioni sociali provinciali indispensabili per l’esercizio delle funzioni trasferite.
Per garantire un interfaccia istituzionale tra i comuni e la Regione e la programmazione generale dei servizi sovracomunali si potrebbe prevedere l’istituzione di un’Unione Provinciale, nella forma di consorzio obbligatorio di comuni con un’Assemblea dei sindaci scelti tra quelli eletti nel territorio provinciale. In alternativa si potrebbero attribuire queste funzioni al Consiglio delle Autonomie locali già istituito in ogni regione. Tutto senza prevedere strutture o compensi per i partecipanti.

Il 40 per cento del risparmio ottenuto con la soppressione delle province potrebbe essere distribuito ai sindaci del territorio della provincia soppressa, finalizzandolo al miglioramento del welfare e alla riduzione dei tributi locali.
Ma la vera questione è che non è più tempo di discutere ma di agire.
La politica deve dare un segno tangibile della volontà di riformarsi se vuole riacquisire la credibilità e il rispetto che è dovuto a chi dovrebbe fare per libera scelta esclusivamente l’interesse pubblico.


* Luigi Ferdinando Nazzaro è specialista in Diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione, ha ricoperto incarichi dirigenziali e svolto attività di docenza per le pubbliche amministrazioni. Ha redatto pubblicazioni in materia di diritto civile.
Alberto Stancanelli, del Comitato direttivo di Italia Futura, è Consigliere della Presidenza del Consiglio dei ministri. Ha svolto incarichi di vertice, nello Stato e negli enti territoriali, tra i quali: Capo di Gabinetto del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione e Direttore del Dipartimento delle risorse umane del Comune di Roma.

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