La (non)comunicazione nell’era dei fannulloni
Rovesciamo la prospettiva dell’editoriale: se chiarezza, tempestività e trasparenza di informazione sono fondamentali per i cittadini, quanto più – e prima – devono esserlo per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni? Il campanello d’allarme, ancora una volta, arriva dai commenti dei nostri lettori che aprono un altro fronte sul tema PA: per una volta non rapporto PA/cittadini, ma PA/impiegati, l’asse si sposta dalla customer satisfaction alla employee satisfaction.
22 Ottobre 2008
Rovesciamo la prospettiva dell’editoriale: se chiarezza, tempestività e trasparenza di informazione sono fondamentali per i cittadini, quanto più – e prima – devono esserlo per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni? Il campanello d’allarme, ancora una volta, arriva dai commenti dei nostri lettori che aprono un altro fronte sul tema PA: per una volta non rapporto PA/cittadini, ma PA/impiegati, l’asse si sposta dalla customer satisfaction alla employee satisfaction.
La PA non comunica, non incentiva, non premia, non coinvolge: più che uno sfogo, ci sembra il naturale sentimento di disagio di chi si è trovato ad essere, suo malgrado – e con le dovute eccezioni – nella scomoda posizione di capro espiatorio delle inefficienze della Pubblica Amministrazione. “La comunicazione interna è il punto nevralgico per far sentire la persona che lavora all’interno dell’organizzazione parte di un sistema, di cui condivide attività e obiettivi. A patto che non sia fine a se stessa, ma integrata in un’ottica strettamente sistemica, legata alle altre variabili del marketing mix, al lavoro, al rewarding, al pacchetto retributivo e, nel complesso, al luogo di lavoro”. Alberto Padula è professore incaricato di Economia e gestione delle imprese di pubblici servizi all’Università di Roma Tor Vergata, da anni interessato ai temi del “marketing dei servizi” all’interno delle Pubbliche Amministrazioni e tra i primi, in Italia, ad essersi occupato della centralità delle persone per la qualità dei servizi pubblici*.
Proprio sulla comunicazione interna – o meglio sulla mancanza di comunicazione – arrivano dai nostri lettori le manifestazioni di disagio più forti: è una percezione di estraneità rispetto agli obiettivi della struttura in cui si lavora e di isolamento rispetto alla formazione dei processi produttivi. Eppure nei confronti del dipendente la PA dovrebbe mettere in atto tutte quelle azioni che solitamente sono rivolte al consumatore finale, ovvero vendere il lavoro ai propri dipendenti così come farebbe con il suo miglior prodotto. Questo è strategico per la stessa percezione che i cittadini hanno della capacità di servizio di un’amministrazione. “La soddisfazione del cittadino è lo specchio, la prova della presenza di dipendenti soddisfatti.” – spiega Padula – “Nella PA noi eroghiamo servizi che sono ad alta intensità di personalità: quando accediamo a un pubblico servizio abbiamo a che fare con delle persone e molte volte valutiamo la qualità del servizio in base al comportamento di queste persone. In altre parole c’è un rapporto diretto tra le persone dell’organizzazione e il successo dell’amministrazione”.
Nei manuali di organizzazione questa cosa si chiama benessere organizzativo concetto stigmatizzato, nel 2004, da una Direttiva con cui il Ministro per la Funzione Pubblica ha inteso sostenere la capacità delle amministrazioni pubbliche di attivarsi, oltre che per raggiungere obiettivi di efficacia e produttività, anche per realizzare e mantenere il benessere fisico e psicologico delle persone. (non)Comunicazione a parte, altri meccanismi interni non sembrano funzionare. “Il passo successivo” continua a spiegarci Padula – “consiste nell’orientare al merito ed all’obiettivo anche i sistemi di carriera all’interno del sistema pubblico. Esistono meccanismi di selezione nella PA, evidenti a tutti, che non sempre sono in grado – come avviene nell’impresa privata – di costruire un percorso di carriera specifica attorno a determinate professionalità. Spesso le retribuzioni ad incentivo vengono percepite dalle persone in modo iniquo, proprio per la loro incapacità di mostrare in modo trasparente la relazione esistente tra premio e prestazione. La PA non riesce a dimostrare queste relazioni perché si basa ancora sul elementi punitivi – da un lato – e di salario fisso e incentivazioni a pioggia – dall’altro”. Questo non consente di far emergere le singole capacità delle singole persone: come lavoratore, per sentirmi parte di un’organizzazione alla quale sono legato e nella quale passo la gran parte della mia vita, ho bisogno di avere riconoscimenti altri rispetto alla retribuzione: di carriera, per esempio, o di formazione per lo sviluppo professionale. Questo è un punto dolente, che emerge anche, e spesso, nei contributi al nostro blog: è mai possibile – si chiede e ci chiede un lettore – che bisogna ancora andare avanti con quiz di diritto pubblico e privato, facendo totale astrazione dall’esperienza documentabile? È, ancora una volta, l’esigenza di riconoscimento che viene fuori, a tutti i livelli. Anzi. “Ho sempre lavorato sul concetto della piramide rovesciata:” conclude Padula ”secondo me è molto più importante, ai fini dei risultati aziendali, coinvolgere la base piuttosto che il vertice, anche perché il vertice è comunque molto più coinvolto e più collegato alla propria organizzazione”.
Quella che nel libro verde sul futuro del sistema di Welfare in Italia il Ministro Sacconi chiama “la vita buona nella società attiva” è il modello da replicare all’interno delle organizzazioni pubbliche come e più che in quelle private perché più che in ogni altro contesto organizzativo il benessere delle persone che ci lavorano si trasforma in valore aggiunto per i cittadini.
* “La centralità della persona per la qualità dei servizi pubblici”, di Alberto Padula, apparso sul n. 35 della Rivista Italiana dei Comunicatori Pubblici