La PA è vittima della cultura dell’urgenza
Le urgenze sono diventate ordinaria amministrazione negli uffici pubblici, tanto che alcuni le hanno addirittura “istituzionalizzate” con Commissioni ad hoc. Ma l’azione amministrativa richiede precisione in punto di diritto e di organizzazione, se non vuole cadere nella sciatteria, nell’inefficienza e nella corruzione (che si nascondono dietro le urgenze)
17 Dicembre 2019
Gianni Penzo Doria
Direttore dell'Archivio di Stato di Venezia e Scuola di archivistica, paleografia e diplomatica
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Le amministrazioni pubbliche sono sempre più soggiogate dalla fretta sconclusionata di agire. Ormai le urgenze sono diventate ordinaria amministrazione, la programmazione incespica e la strategia risulta un’azione ignota o trascurata.
L’urgenza causa sciatteria
Esiste, tuttavia, anche l’altra faccia della medaglia, una sorta di contraltare, probabilmente un contrappasso, ma che pesa su cittadini e imprese. Al boiardo fa oramai comodo inseguire le urgenze, perché la fretta è sempre la prima scusa a giustificare la sciatteria e la mancata programmazione degli interventi. Se il quotidiano emerge, la programmazione affonda. Spesso, urgenze e sciatterie sono un binomio inscindibile, quasi un monoblocco titanico, praticamente un’endiadi del perfetto burocrate.
Di contro, l’azione amministrativa richiede precisione in punto di diritto e di organizzazione, ma anche eleganza, proprietà, sobrietà linguistica, nonché buon senso e semplicità. E sappiamo perfettamente quanto essere semplici sia una cosa difficile. La cura dell’aspetto grafico, pertanto, non è più soltanto un aspetto architetturale della confezione di un provvedimento, ma ne diventa essenza. Di conseguenza, l’ontologia della forma sobria è di per sé il risultato primario dell’efficacia dell’azione amministrativa.
Le urgenze diventano procedure con istituti ad hoc
Non solo. Le urgenze sono talmente radicate da essere perfino proceduralizzate. Ci sono, infatti, enti pubblici che hanno istituito addirittura una “Commissione di valutazione dei provvedimenti d’urgenza”. Nel mio piccolo e negli uffici che ho diretto, ho sempre fatto togliere le cartelline e i libri firma con scritto “Urgente”, “Urgentissimo”. Ricordavo ai miei colleghi le parole illuminate di Francesco Alberoni in un articolo del Corsera del 2004: «C’è poi quello che tiene tutte le informazioni segrete. Bisogna strappargliele con un interrogatorio e, in questo caso, dice il meno possibile. Poi anche lui arriva alla riunione con un lungo elenco di provvedimenti urgenti che si dovrebbero discutere, ma non c’è tempo per analizzarli con cura. Allarga le braccia, cosa può farci? Così finisce per fare quello che vuole. Un grande imprenditore, mio amico, in questi casi diceva: È veramente urgente? Benissimo, vuol dire che bisogna rifletterci meglio, ne riparleremo domani».
Le urgenze sono, inoltre, una forma di pressione psicologica. Se il funzionario arriva trafelato alle 11.18 per presentare una richiesta di finanziamento per un bando che scade alle 12.00, la colpa è del Sindaco, del Presidente, del Direttore Generale che in 42 minuti non ha letto le trenta pagine del progetto (senza gli allegati) e che non è in grado di comprendere che da quel finanziamento dipende la vita stessa dell’ente se non addirittura del pianeta, dal momento che si tratta di un progetto senza pari nell’universo.
Le urgenze portano corruzione e inefficienza
A bene vedere, li conosciamo. Sono sempre gli stessi. Sono i professionisti delle urgenze che creano le premesse per corruzione e per inefficienze. E chi non segue le procedure crea emergenza nelle urgenze. Un incubatore in continuo fermento, nel senso che trasforma le procedure più semplici in urgenze al cubo. È vero che il nostro ordinamento contempla le “ordinanze contingibili e urgenti”, ma esclusivamente su presupposti di reale gravità di un danno potenziale e con ricadute irreversibili, da affrontare anche in difetto di normazione generale e con il principio di proporzionalità.
Nulla di tutto questo nell’ordinaria amministrazione delle “urgenze”, che a volte lo diventano solo per mancanza di pianificazione, trascuratezza, dabbenaggine o inerzia. Esiste, dunque, anche un problema di rispetto nei confronti dei colleghi, del responsabile del procedimento e del processo decisionale, per non trattare di organizzazione dei flussi di lavoro, puntualmente elusi da una modalità operativa che, per principio malsano, ha come principale obiettivo proprio il mancato rispetto delle procedure.
Se tutto è urgente, nulla è urgente
Non è sufficiente avere buona volontà, ma serve rigore, preparazione e dedizione. Gestire le urgenze con personale impreparato significa fallire. Lo sa bene la protezione civile, per la quale ogni volontario deve portare con sé non tanto un bagaglio motivazionale, quanto piuttosto una preparazione professionale di altissimo livello. Se così non fosse, un volontario impreparato annullerebbe il lavoro di almeno due volontari professionali. Questo non significa che non possano esistere urgenze ed emergenze. Ma dovrebbero essere l’eccezione. Se non si pone un freno a questo malcostume lavorativo, si vive perennemente in allerta e diventa tutto urgente senza soluzione di continuità. Se tutto è urgente, nulla diviene urgente.
Ed è allora che nascono le espressioni autocelebrative, dissacranti o altisonanti: «Solo io so porre all’attenzione pratiche veramente urgenti, assolutamente indefettibili. Solo io conosco le procedure e non perdo tempo». Un esempio classico di mandarinismo artigianale. Senza dimenticare che si tratta dello stesso funzionario per il quale firmiamo al volo un provvedimento, ma che poi passa a ritirarlo in segreteria dopo due giorni.