EDITORIALE
La valutazione alla prova di una nuova legge
Un principio dovrebbe guidare tutto il processo di valutazione: una “buona” PA non è solo quella che funziona bene, che è digitale, che è veloce, ma è quella che contribuisce a creare sviluppo sostenibile (su questo cfr. anche il tema di FORUM PA 2017) secondo indicatori che siano percepibili dai cittadini e dalle imprese e che abbiano un impatto sulle loro vite, abilitando il raggiungimento dei loro obiettivi
8 Febbraio 2017
Carlo Mochi Sismondi
Ho avuto modo di leggere una prima bozza del costruendo decreto legislativo sulla valutazione dei dipendenti pubblici che derivava dalla legge delega 124/2015 (la c.d. “riforma Madia”).
È certamente ancora prematuro un giudizio su un provvedimento in fieri quindi, anche per dare un contributo a questo lavoro, piuttosto che discutere di un work in progress, vorrei soffermarmi su quello che la legge prevedeva come principi e criteri direttivi per ripensare la disciplina della valutazione e ricordare da dove siamo partiti.
La valutazione e il ciclo di gestione della performance erano stati l’oggetto principale della legge 150/2009, la c.d. “riforma Brunetta” che aveva certamente portato una forte discontinuità e introdotto concetti e linguaggi del tutto nuovi nel panorama legislativo. Nel presentare importanti novità la “legge Brunetta” era stata anche oggetto di forti critiche sia da parte politica, sia da quella sindacale, che vedeva una sostanziale diminuzione dello spazio della contrattazione, sia infine da parte degli esperti di valutazione che temevano un affastellarsi eccessivo di adempimenti in capo alle singole amministrazioni. Inoltre era stata giudicata troppo rigida per quel che riguardava le fasce di merito a cui attribuire i premi di risultato (il 50% ad una fascia di merito del 25%; il restante 50% ad una fascia di merito del 50%; nulla al restante 25% meno meritevole).
A fronte di questa situazione di fatto la legge delega “Madia” impegna (all’art.17 comma 1, lettera r) il Governo a decretare sulla valutazione secondo principi insieme chiari ed ambiziosi che è opportuno esaminare. Per una migliore comprensione metto in neretto le parole a mio parere chiave di queste raccomandazioni (che ho anche numerato per comodità):- semplificazione delle norme in materia di valutazione dei dipendenti pubblici, di riconoscimento del merito e di premialità;
- razionalizzazione e integrazione dei sistemi di valutazione, anche al fine della migliore valutazione delle politiche;
- sviluppo di sistemi distinti per la misurazione dei risultati raggiunti dall’organizzazione e dei risultati raggiunti dai singoli dipendenti;
- potenziamento dei processi di valutazione indipendente del livello di efficienza e qualità dei servizi e delle attività delle amministrazioni pubbliche e degli impatti da queste prodotti, anche mediante il ricorso a standard di riferimento e confronti;
- riduzione degli adempimenti in materia di programmazione anche attraverso una maggiore integrazione con il ciclo di bilancio;
- coordinamento della disciplina in materia di valutazione e controlli interni;
- previsione di forme di semplificazione specifiche per i diversi settori della pubblica amministrazione.
Si tratta dicevo di obiettivi molto ambiziosi che, a mio parere mal si adattano ad un rinnovello del d.lgs. 150/2009 e che, seguendo la buona norma di non mettere vino nuovo in botti vecchie, rendono forse necessario un provvedimento del tutto nuovo, semplice, lineare, di principi.
Leggendo tra i criteri credo sia essenziale che il nuovo decreto governativo non abbassi l’asticella su alcuni punti determinanti:
- Semplificazione e riduzione degli adempimenti: le amministrazioni sono assediate dalla carta, dai piani, dalle relazioni richieste da un centro vorace che chiede più di quanto non sarà poi capace di esaminare. Ridurre e semplificare radicalmente vuol dire anche dare maggiore responsabilità alle amministrazioni e rinunciare alla presunzione di tutto regolamentare e tutto controllare.
- Test di utilità: l’amministrazione è pagata dai cittadini che sono interessati non agli output, ma agli outcome. A come, in soldoni, le loro tasse si trasformano in “valore pubblico” e accrescono il loro benessere equo e sostenibile. Su questo bisogna essere chiari e decisi. La raccomandazione n.4 lo è ed impone il criterio della separazione della valutazione dell’efficienza da quella degli impatti (degli outcome appunto). Sarebbe però un grave errore che l’esame degli impatti rimanesse ad un livello “teorico” e basato solo su obiettivi nazionali e priorità strategiche e non scendesse al livello di percezione dei singoli cittadini sulla loro vita. Facendo un esempio non credo che un singolo servizio per l’impiego possa essere valutato sulla base del numero delle pratiche evase o dei colloqui sostenuti e non sulla dinamica del tasso di disoccupazione del territorio di appartenenza. È ovviamente evidente che non tutte le variabili e non tutti i fattori saranno a disposizione dell’ufficio, ma è anche vero che se la disoccupazione non scende abbiamo speso male le nostre risorse e quell’ufficio non sarà da premiare. Questo presuppone una PA che esca dalle sue stanze ed entri in negoziazione con tutte le forze del territorio, ma è proprio questa la PA che ci serve.
- Integrazione con il ciclo di bilancio: principio che era per altro già previsto dalla “legge Brunetta” e che deve mandare definitivamente in soffitta il criterio della spesa storica, che già doveva essere un ricordo lontano, ma che la lentezza del processo di determinazione dei costi standard ha spesso riesumato, e aiutare a definire l’assegnazione di risorse sì sugli obiettivi, ma anche sulla qualità della performance dei singoli uffici. L’Italia è piena di esempi di acqua versata in colabrodi che non possono altro che sprecarla al suolo. Anche qui la capacità amministrativa deve potersi misurare in termini di obiettivi di outcome e quindi in indicatori di benessere equo e sostenibile ed essere criterio per l’assegnazione di risorse finanziarie, di personale e di tecnologie.
- Distinzione tra valutazione dell’organizzazione e valutazione individuale, richiesta dal terzo criterio, ha dato luogo a migliaia di dotte pagine. Non entro nello spinoso tema se non per dire che la cosa più sbagliata sarebbe, in questo caso, prevedere una norma valida per tutte le amministrazioni, grandi o piccole che siano, di produzione o di indirizzo, di autorizzazione o di gestione. Diamo spazio alla diversità in questo campo dove massima deve essere l’esprit de finesse e l’autonoma e trasparente responsabilità della dirigenza. Sempre che, naturalmente, siamo capaci di scegliere come dirigenti i migliori.
Un principio dovrebbe guidare tutto il processo di valutazione: una “buona” PA non è solo quella che funziona bene, che è digitale, che è veloce, ma è quella che contribuisce a creare sviluppo sostenibile (su questo cfr. anche il tema di FORUM PA 2017) secondo indicatori che siano percepibili dai cittadini e dalle imprese e che abbiano un impatto sulle loro vite, abilitando il raggiungimento dei loro obiettivi.
In sintesi abbiamo una grande occasione, non sprechiamola con un “rinnovello” illeggibile che richiede un paio di lauree per essere capito. I cittadini hanno diritto di sapere come vengono valutati i dipendenti pubblici che sono “cittadini al servizio dei cittadini”. Se non lo facciamo li valuteranno loro, sulla base di pregiudizi e di campagne di stampa a dir poco sommarie.