La valutazione nella pa non è morta, ma è molto grave

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Che fine farà la Civit? La struttura esce profondamente cambiata dal Decreto approvato lo scorso 26 agosto dal Consiglio dei Ministri.  A tal proposito pubblichiamo una riflessione di Giovanni Urbani, esperto organizzazione e valutazione nella pa. In particolare Urbani si sofferma sullo spostamento di competenze dalla Civit all’Aran e sulle eventuali ripercussioni di questo cambiamento sul sistema di valutazione.

2 Settembre 2013

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Giovanni Urbani*

Che fine farà la Civit? La struttura esce profondamente cambiata dal Decreto approvato lo scorso 26 agosto dal Consiglio dei Ministri.  A tal proposito pubblichiamo una riflessione di Giovanni Urbani, esperto organizzazione e valutazione nella pa. In particolare Urbani si sofferma sullo spostamento di competenze dalla Civit all’Aran e sulle eventuali ripercussioni di questo cambiamento sul sistema di valutazione.

La riflessione parte dal presente, la crisi economica e sociale che attraversa il paese, e la necessità di migliorare la performance della pa, tramite metodi che consentano di fare più e meglio con meno risorse. E’ possibile ciò nella cultura italiana della cooptazione, corruzione e del non-miglioramento di cosa si fa?

L’ottimismo è un magnete che attrae risultati positivi, ma non è facile sfruttarlo inquadrando l’argomento nei movimenti di riforma del settore pubblico che hanno interessato l’Italia, come pochi altri paesi industrializzati. Ci avevano provato Bassanini, Nicolais e con più risultati tangibili (nonché errori) Brunetta: oggi in continuità con il Governo Monti, il Ministro per la PA e la Semplificazione Giampiero D’Alia sembra meno interessato alla valutazione e più a trasparenza e anti-corruzione.

Nel decreto PA varato dalla PCM del 26.08.13 abbiamo visto con sorpresa la sottrazione alla CiVIT delle funzioni sulla valutazione delle performance pubbliche a favore dell’ARAN. La Riforma Brunetta aveva creato un’agenzia specifica sulla valutazione delle performance pubbliche, poi Monti gli aveva assegnato in maniera non assorbente “anche” funzioni anti-corruzione ed ora gli viene mozzata improvvisamente la parte di competenza per la quale originariamente era stata istituita, sul modello di altre agenzie europee di valutazione (es. UK). Il ridicolo è che la CiVIT continuerà ad esistere per altre funzioni nuove, estranee alla valutazione delle performance pubbliche e, il suo acronimo, riguarda solo le istitutive (Commissione Indipendente per la Valutazione delle PA). Che dire: la valutazione della pa non è morta, ma è molto grave.

Non che la CiVIT abbia funzionato benissimo, ma avevamo un’agenzia nazionale specifica e riconosciuta, e visto la riforma economicista brunettiana e i maldestri correttivi successivi, di più non è riuscita a fare. E, adesso, l’ARAN? Un organismo tecnico di diritto pubblico, che rappresenta legalmente la pubblica amministrazione italiana nella contrattazione collettiva nazionale, per miracolo si occuperà tra le sue funzioni “anche” di valutazione delle performance, magari con una piccola sezione ad hoc. Il gigante (la CiVIT) diventa pulcino (sezione ARAN).

E’ un “fallimento”, soprattutto perché non si colgono le enormi possibilità della performance organizzativa prima che individuale. Naturalmente, condurre correttamente la valutazione delle politiche pubbliche e delle prestazioni amministrative, non garantisce l’accettazione politica e culturale dell’informazione valutativa né la sua integrazione nei processi decisionali e di gestione, come esercizio di responsabilità pubblica e incentivo all’apprendimento. Non è neanche realistico attendersi a breve in Italia un cambiamento immediato delle politiche e delle pratiche amministrative come effetto dei suggerimenti valutativi. La complessità dei processi decisionali non permette di isolare il contributo della valutazione, soprattutto, quando questa è un insieme di approcci, metodi e tecniche attraverso cui si generano informazioni eterogenee (es. monitoraggio, controllo finanziario, misurazione di performance, impatto dei programmi, ecc).
Il vero problema è di natura culturale: il politico deve essere aperto a capire come, dove e perché i programmi funzionano o meno e il valutatore (e/o il dirigente), è chiamato a dire la verità al potere – speak truth to power (Wildawsky) – senza ipocrisie retoriche autointeressate a favore dello status quo.

Nonostante queste esigenze di miglioramento con la valutazione fossero chiare da molto tempo, e in fondo abbiano ispirato le politiche di New Public Management (NPM) di cui anche le riforme italiane degli anni ’90 sono un piccolo esempio, la stroncatura della CiVIT rappresenta certamente un punto di svolta, come una sorta di continuità del governo Letta con la cecità del precedente. 

Una sola priorità nella pa, come da politica dell’annuncio, essa ha inteso solo porre un freno a comportamenti di corruzione del settore pubblico non più tollerabili (peggio di noi solo la Grecia in Europa); però, nel farlo ha impresso uno stile centralizzatore che contrasta con l’autonomia normativa e organizzativa riconosciuta agli enti in materia di organizzazione e di controllo strategico, e soprattutto vanifica gli sforzi condotti dagli amministratori più innovatori che valutavano la macchina amministrativa funzionante.

Il ciclo delle performance e la connessa valutazione funzionano se concepiti come una politica, e cioè come una serie di interventi intenzionali (processi, strumenti) per trattare problemi. Dagli anni ’90 in poi “il sistema dei controlli” ha fermato il Paese, che aveva bisogno di capire e agire con la valutazione.

A seguire la Riforma Brunetta e la spending review, con un inizio dello studio del rapporto tra regolazione dei flussi finanziari e performance pubbliche; purtroppo nonostante i processi avviati dal 2009, dallo scorso anno si sta assistendo parallelamente ad un ritorno dei controlli sulla spinta di episodi di corruzione politica (proprio come tangentopoli nel 1992).

Le politiche degli ultimi anni però, in generale, sembravano mettere in discussione positivamente gli strumenti utilizzati per valutare il funzionamento della cosa pubblica. Si tratta di riposizionare questi ultimi alla luce dei problemi reali, posti dall’attuale crisi politica e sociale. Infatti, la crisi che stiamo vivendo non riguarda solo l’economia e la finanza, ma anche la società (scarsa fiducia) e le istituzioni centraliste, incapaci di intercettare le esigenze e le potenzialità dei cittadini. “La riforma del settore pubblico”– scrive Geert Bouckaert nella prefazione del volume Valutare la pubblica amministrazione: tra organizzazione e individuo. Visioni dei valutatori italiani per performance e competitività (FrancoAngeli) –“dovrebbe essere condivisa e partecipata dalla società”.

I nuovi strumenti per essere efficaci dovrebbero essere inquadrati in una duplice direttiva: della crescita e della democrazia. Non torniamo alla stagione dei controlli, sarebbe regredire, bisogna favorire la valutazione della p.a. come progetto aperto. Il miglioramento della produttività della p.a., che si auspica di ottenere per il Paese, sarà veramente strumento per la crescita solo se condotto in modo democratico, mobilitando le risorse degli amministratori, dei cittadini e delle imprese (sussidiarietà orizzontale).

Per orientare e sostenere i processi di riforma e miglioramento con la valutazione delle performance pubbliche, contenendo l’attuale clima di controllo ipertrofico e formale dello Stato, non è sensato, quindi, chiudere l’unica agenzia di valutazione che avevamo, malgrado difficoltà ed errori. E siccome in Italia non c’è continuità nel disegno, piace spesso il nuovo (che non si chiude), scompare di fatto l’agenzia nazionale di valutazione, si assegna qualche funzione all’ARAN e nasce pure un’ulteriore agenzia: l’Agenzia per la Coesione, per migliorare l’utilizzo dei fondi comunitari ed assumere qualche altro centinaio di persone…

 

 

* Giovanni Urbani – Manager pubblico e valutatore
Mantova

 

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