Lavoro pubblico e riforma costituzionale: l’errore del centralismo

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Il recente disegno di legge di riforma del titolo V della Costituzione approvato pochi giorni fa in Consiglio dei Ministri, per altro apprezzabile nel suo obiettivo di ordinare una materia che la precedente riforma del 2001 aveva lasciato con enormi buchi, prevede il ritorno allo Stato della potestà legislativa esclusiva per quanto riguarda il lavoro pubblico. Introduce infatti la “disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni” nel punto g) dell’art 117 della Costituzione che elenca le aree di potestà esclusiva dello Stato. In parole povere né leggi regionali né norme o statuti degli enti locali avranno più possibilità di regolare temi quali assunzioni, valutazione, stabilizzazioni, ecc. Io credo che sia una scelta profondamente sbagliata sia nei suoi presupposti teorici sia nei suoi effetti pratici. Cercherò di argomentare questa convinzione…..

17 Ottobre 2012

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

Il recente disegno di legge di riforma del titolo V della Costituzione approvato pochi giorni fa in Consiglio dei Ministri, per altro apprezzabile nel suo obiettivo di ordinare una materia che la precedente riforma del 2001 aveva lasciato con enormi buchi, prevede, tra l’altro, il ritorno allo Stato della potestà legislativa esclusiva per quanto riguarda il lavoro pubblico. Introduce infatti la “disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni” nel punto g) dell’art. 117 della Costituzione che elenca le aree di potestà esclusiva dello Stato. In parole povere né leggi regionali né norme o statuti degli enti locali avranno più possibilità di regolare temi quali assunzioni, valutazione, stabilizzazioni, ecc.

Io credo che sia una scelta profondamente sbagliata sia nei suoi presupposti teorici sia nei suoi effetti pratici. Per altro ritengo sempre fortemente sbagliato legiferare, e in particolare toccare la carta Costituzionale, sulla spinta di motivi contingenti, siano essi esigenze di bilancio o pessimi comportamenti, di singoli o di gruppi, da stigmatizzare e punire.

Cercherò di argomentare questa convinzione, ma sono conscio che un’esauriente spiegazione dovrebbe ripercorrere oltre vent’anni di riforma del lavoro pubblico, dovrebbe rifarsi ai principi che hanno guidato le spinte riformatrici di questi anni, dovrebbe entrare ben più profondamente di quanto non possa fare un editoriale su aspetti di diritto costituzionale, di organizzazione, di visione politica della Repubblica.

Una buona mano me la può dare il saggio di Bonaretti "Le città a colori" che abbiamo pubblicato qualche settimana fa e che profeticamente annunciava come grave rischio quello che poi il ddl sta prospettando: un ritorno, spinto dalla necessità del risparmio e del controllo, all’amministrazione "in bianco e nero", adatta forse a società meno complesse del passato, non certo alla nostra caotica società delle differenze. D’accordo con Bonaretti confermo che si tratta di un atteggiamento dettato da tre gravi errori: il bisogno di uniformità che si sente quando si siede al Governo, la fiducia eccessiva nello strumento legislativo come attore di riforme, infine una sfiducia eccessiva verso l’autonomia degli enti territoriali.

Certo l’attuale stato di “federalismo imperfetto”, con il peccato originale di un codice delle autonomie che non riesce a decollare (fermo in Parlamento dal 2009), ha provocato un forte contenzioso davanti alla Corte Costituzionale e certo c’è da fare chiarezza, ma la tentazione di farla con una mannaia che decapiti l’autonomia è da combattere con la massima energia. Ci sono certamente altri mezzi che possono salvaguardare l’uniformità dei  principi generali dell’impiego presso le amministrazioni pubbliche, per altro già ben espressi dalla nostra Costituzione, facendo salva la potestà delle regioni e degli enti territoriali. 

Ciò premesso vi invito a seguirmi in un pur schematico ragionamento:

1. La disciplina giuridica del lavoro non è altro che il fondamento dei modelli organizzativi con cui il lavoro sarà svolto. Non stiamo parlando quindi di regole astratte, ma delle basi su cui poi l’effettiva gestione delle risorse umane e l’organizzazione dell’ente dovrà costruire un’efficace struttura.

2. Pensare però che esista un’organizzazione buona per tutti, le cui basi possono essere messe con una legge universale, è profondamente irrealistico: l’organizzazione non è infatti neutrale, ma è funzionale alle politiche che ciascun ente si propone e nell’attuazione di queste politiche, riassunte negli obiettivi del mandato dato dagli elettori agli eletti, trova la sua ragion d’essere.

3. Ma le politiche sono per definizione "a colori", ossia diverse per ciascuna amministrazione, perché diverse sono le condizioni di contesto, diverse le dimensioni, diversi gli obiettivi e le politiche che gli elettori hanno considerato prioritari e i mezzi per raggiungerli. Questa differenza è ricchezza e, in un regime democratico basato sulla trasparenza, la divisione dei poteri e la partecipazione, questa ricchezza accresce, non lede i diritti di ciascuna comunità. Purtroppo questa ricchezza, così come le best practice organizzative che sono cresciute in molti territori, è per lo più sconosciuta alle impostazioni PalazzoChigicentriche, preoccupate soprattutto ad evitare abusi.

4. Abusi che in effetti in molti casi ci sono stati. Cavalli fatti senatori da qualche politico novello Caligola, assunzioni di massa prima delle elezioni, promozioni generalizzate senza guardare al merito sono cose rilevate in alcune amministrazioni (un po’ meno di quanto si favoleggi a dire il vero). Ma allora, se non va bene la centralizzazione in una notte in cui tutti i gatti son grigi, che fare per evitare abusi? La strada è apparentemente più lunga che non una riforma della nostra legge più alta e prevede la massiccia introduzione del “terzetto magico”: autonomia, responsabilità, trasparenza (e quindi social auditing). Come uno sgabello ha bisogno di tre gambe per stare in piedi, così la sana vita democratica delle istituzioni locali – che sono locali, ma devono poter agire e competere in un panorama globale – non può che basarsi su questi tre pilastri tutti e tre fondamentali, la cui garanzia però non può che essere endogena. Non c’è qui spazio per entrare nel dettaglio, ma abbiamo scritto a iosa di tutti e tre gli aspetti.

Chiudo questo mio primo round contro questa norma, a mio parere perniciosa, ancora con le parole di Mauro Bonaretti, a cui mi lega un comune sentire oltre a tante esperienze pioneristiche:

È anacronistico pensare di tornare al bianco e nero nella società della rete. Crescere significa poter contare su città libere di competere e innovare sul piano delle politiche e della propria organizzazione.

È penoso pensare di vivere in un Paese nel quale una città che, ad esempio, abbia un piano di sviluppo strategico per il rilancio di un’area, con risorse a disposizione, non possa istituire una task force dedicata perché non può assumere, perché non può dare consulenze, perché non può investire e magari perché non può nemmeno comunicare per attrarre gli stakeholders.

È penoso osservare che lo Stato anziché favorire quel piano, ad esempio, facilitando le relazioni con investitori internazionali o con le istituzioni europee, di fatto lo renda impossibile con mille vincoli e divieti. Serve un grande piano strategico nazionale, sostenuto dal Governo, per ridare i colori alle città. (…)

Non è più il tempo di legiferare per dare risposta ai luoghi comuni, né il tempo di inseguire tecnicismi burocratici: è il tempo di governare con altri strumenti per ridare al nostro tempo ancora una speranza.

È evidente che questo approccio richiede un ribaltamento del tradizionale ruolo gerarchico dello Stato per trasformarlo in un potente facilitatore e snodo di relazioni a favore dello sviluppo locale. Schiacciato tra il ruolo dell’Europa, da un lato, e il ruolo delle città, dall’altro, lo Stato centrale rischia di trovarsi senza una chiara identità nel quadro istituzionale, ma non è certo con una sorta di centralismo, fuori tempo massimo, che può recuperare l’autorevolezza perduta. Lo spazio di azione è infinito per tutti gli attori: Stato e autonomie.

Percorrerlo dipende solo dalle nostre capacità. 

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