EDITORIALE
Le PA come smart buyer: una svolta che richiede uno sforzo di sistema
23 Settembre 2015
Tommaso Del Lungo
Il public procurement – ovvero la spesa del settore pubblico il beni e servizi per il suo funzionamento – rappresenta il 19% del Pil europeo. Una cifra enorme che alimenta un mercato molto specializzato spesso più in gestione della burocrazia che in innovazione. Una corretta strategia di governo su come le pubbliche amministrazioni acquistano beni e servizi può avere, quindi, una ricaduta pesante su asset cruciali del Paese: dal tessuto produttivo industriale, all’efficienza della pubblica amministrazione, sino alla competitività dei territori.
La qualità – cosa compro – e la modalità di acquisto – come compro – non sono quindi variabili da lasciare al caso o a strategie che non riescono a guardare al medio-lungo termine, ma esigono una visione ben precisa ed un indirizzo da intraprendere.
Anche per questo nel gennaio dello scorso anno il Parlamento europeo ha approvato le direttive sull’innovation public procurement (2014/24/EU – 2014/25/EU – 2014/23/EU) che dovranno essere recepite dai singoli stati membri entro gennaio 2016. Le nuove norme puntano a sanare le storture del mercato degli acquisti pubblici e ad aumentare le competenze, le professionalità e le risorse dedicate dalle singole amministrazioni ai processi di acquisto e innalzare la qualità della domanda pubblica.
L’obiettivo finale quindi è quello di arrivare a rendere le amministrazione, o meglio le centrali di acquisto dei veri e propri “smart buyer” (o intelligent purchaser) in grado di rappresentare elementi di sostegno e di indirizzo delle politiche di sviluppo al fine di ottenere un miglior uso delle risorse pubbliche, un livello aggiornato e avanzato di innovazione (tecnologica ed organizzativa) all’interno degli uffici pubblici, un rafforzamento delle piccole e medie imprese ed un innalzamento della qualità dei servizi offerti a cittadini ed aziende.
Purtroppo però questo obiettivo da noi sembra abbastanza lontano. E’ solo di qualche settimana fa il richiamo del MEF alle amministrazioni per ribadire l’obbligo – evidentemente poco rispettato – di utilizzare Consip e le centrali di acquisto regionali. Inoltre come è stato sottolineato da più parti e recepito anche nelle audizioni delle Commissioni Parlamentari per la stesura del nuovo Codice degli appalti, l’attenzione alla qualità è troppo spesso schiacciata da altre esigenze, come il massimo ribasso, e la valutazione ex-post dimenticata, in favore di una valutazione ex-ante che – per forza di cose – non può che riguardare più gli aspetti formali che i risultati conseguiti (l’outcome).
Negli ultimi 15 anni l’Italia ha accumulato un gap di investimenti nel digitale importante, e nell’immediato futuro non sembrano intravedersi segnali di ripresa. Gli ultimi dati di Assinform mostrano una PA locale che ha ridotto gli investimenti in ICT del 2,1% e una PA centrale che ha fatto registrare un -2,6% dopo il -11% registrato l’anno precedente.
Proprio in questo momento, dunque è importante cogliere le opportunità che vengono dalla normativa europea e dal nuovo Codice degli Appalti per riprogettare una strategia nazionale che non consideri le amministrazioni come soggetti isolati, ma come parti di un tessuto vitale che va alimentato, professionalizzato, incoraggiato e – in alcuni casi – coltivato.
Un tessuto composto non solo dal mondo dell’impresa, ma anche dai consumatori, dalla società civile, da Consip e dalle altre centrali di acquisto accreditate, dall’Autorità nazionale Anti corruzione che ha il ruolo di controllo e di vigilanza sui contratti e dagli stessi uffici pubblici a tutti i livelli, nazionale, regionale e locale.
All’interno dello scenario del PPI (public procurement of innovation) descritto dall’Unione Europea la prima leva su cui agire è la capacità delle amministrazioni appaltanti di descrivere in maniera puntuale i propri bisogni, in modo da ricevere offerte tecniche che contemplino una gamma ampia di soluzioni tutte rispondenti alle necessità delle amministrazioni aggiudicatrici. Si tratta, in sostanza, di essere in grado di formulare capitolati sotto forma di problemi tecnologici da risolvere piuttosto che di forniture da acquistare. Il time to market della tecnologia – come è noto – tende rapidamente a zero e le soluzioni individuate al momento della scrittura del bando sono già obsolete al momento dell’aggiudicazione, per non parlare, poi della realizzazione. Il ciclo di vita del prodotto (o del servizio) deve essere un elemento considerato al momento della pianificazione dell’appalto.
Questo tipo di approccio permette di aprire il mercato pubblico al settore degli appalti pre-competitivi che nel nostro Paese e in gran parte dei paesi europei, rimane una leva estremamente sottovalutata, al contrario di quanto avviene ad esempio negli Stati Uniti. Partito da settori ad investimenti pubblici elevati come quello spaziale, la difesa o la sicurezza, il modello dell’appalto pre-commerciale è stato adottato in maniera virtuosa anche in altri campi come i trasporti, la sanità, l’energia e l’ICT.
Sempre più spesso il ricorso ai “Challenge” ovvero alle sfide lanciate dalle organizzazioni pubbliche per risolvere problemi concreti per i quali non esisteva ancora una soluzione di mercato, ha dato prova di attivare potenzialità, talenti ed idee che nel mondo tradizionale degli acquisti pubblici sarebbero rimaste inespresse.
Anche le aziende ICT sono chiamate a fare la loro parte riqualificando le proprie competenze, e lavorando per essere in grado di anticipare i bisogni della domanda o di farli emergere.
Altro strumento cruciale per migliorare il modo in cui le nostre amministrazioni “acquistano” innovazione è il partenariato pubblico-privato (PPP), in cui il rapporto acquirente-fornitore, viene ribaltato e diviene un rapporto in cui il partner privato, che partecipa a tutte le fasi del progetto (ideazione, esecuzione e gestione) facendosi carico di rischi tradizionalmente sostenuti dal settore pubblico e spesso contribuendo al finanziamento del progetto stesso. Un tipo di PPP che in Italia si è sperimentata per un certo periodo e con un certo successo prima di essere fagocitata dagli ingranaggi della burocrazia (e dal malcostume diffuso delle corruttele) è il project financing che coinvolge il sistema bancario e garantisce il reperimento di risorse qualificate per progetti qualificanti.
Infine, come FPA, tra gli strumenti di sostegno pubblico dell’innovazione sul lato della domanda, non possiamo non citare l’innovazione sociale e tutti quei momenti in cui l’amministrazione si fa co-innovatrice, a fianco di partner “inconsueti”: imprese, ricercatori, cittadini e organizzazioni del terzo settore per co-disegnare e co-creare servizi, prodotti o modelli di business. E’ il paradigma dello Stato Partner in cui ciascuno degli attori coinvolti riesce a sfruttare appieno e far crescere le proprie capacità creative e innovative.
Lo scenario è ampio, e rispetto ad alcuni degli strumenti qui elencati, i territori e le amministrazioni locali hanno dimostrato in passato di poter essere laboratori estremamente prolifici e virtuosi, così come non sono mancati approcci coraggiosi da parte dei grandi player. La partita si gioca tutta a livello di strategia nazionale e di normativa secondaria. Guardare esclusivamente ai capitoli di bilancio, all’esigenza di “contenimento” della spesa, o al rispetto “formale” delle norme equivarrebbe a perderla.