L’impatto dello spoils system sulla “continuità istituzionale” delle policies

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Mario Morcellini, Commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, riconsidera criticamente l’esperienza dello spoils system e cita tre esempi tematici sui quali non è convinto che sia sufficiente una delega di tipo politico: la sicurezza, la formazione e il lavoro

7 Marzo 2018

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Patrizia Fortunato

Le disposizioni al cambiamento che emergono dagli atteggiamenti dell’elettorato nelle società contemporanee obbligano le Istituzioni a fare uno sforzo di continuità delle politiche per scongiurare che il Paese torni continuamente all’anno zero. Un rischio che avevamo denunciato nell’editoriale del 17 febbraio scorso, lanciando spunti di riflessione sull’attuale capacità delle nostre Istituzioni di gestire i processi di innovazione dentro e fuori la PA, a fronte anche dell’imminente cambio di vertice della classe politica. Per cercare di ridimensionare il timore di una partenza lunga e faticosa, il primo passo da fare è quello di riconsiderare criticamente l’esperienza dello spoils system. Questa è la prima operazione che Mario Morcellini*, Commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) e Consigliere alla Comunicazione di Sapienza, sente di dover far proprie.

“C’è il pericolo che il solo elemento di cambiamento organizzativo determinato dallo spoils system porti con sé una paralisi lunghissima; intanto riguarda l’ultimo trimestre “bianco” della legislazione precedente e almeno il primo del nuovo: sei mesi sono troppi in tempi di innovazione”. A questa nota Morcellini aggiunge che lo spoils system sarebbe più facile difenderlo se si scegliessero, nell’attribuzione di responsabilità strategica, soggetti più istituzionali che politici e cita tre esempi tematici sui quali non è convinto che sia sufficiente una delega di tipo politico: la sicurezza, la formazione e il lavoro.

Il Commissario Agcom assume come segno di innovazione quel che è stato tentato con i musei italiani, un adeguato e intelligente criterio per la nomina di esperti anche provenienti da altri paesi.

Cosa cambiare: l’impotenza dell’Autorità sugli Over the Top
Approfittando anche del cambio elettorale che può ovviamente portare nuova energia e per cui sarebbe logico aspettarsi quello che si chiama il “semestre di fidanzamento”, vedo incombere oggi un rischio nell’ambito delle attività che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni svolge. Il primo nodo è una attenta riconsiderazione dell’aggiornamento delle competenze su cui l’Autorità di regolazione è chiamata a operare.
Forse non tutti sanno: l’Autorità sui compiti di regolazione, e non solo di spinta all’innovazione, ha esplicite competenze nell’ambito del mainstream, nella comunicazione tradizionale e nella comunicazione 1.0, cioè quella in cui sono evidenti le identità e le responsabilità editoriali dei soggetti e delle imprese; ha pochissimi poteri, invece, nei confronti degli over the top. Potremmo dire brutalmente che quasi non ha potere se non quelli di moral suasion. Questa situazione determina un gap di credibilità istituzionale del ruolo dell’Autorità rispetto al Paese perché nessuno può pensare, fuori da questa Istituzione, che siamo competenti a dire qualcosa solo sul mainstream, ma quasi “muti” sull’incattivito e sempre più rilevante mondo della rete (si pensi all’hate speech e alle fake news). Il primo compito di un nuovo Governo che voglia risolutamente affrontare compiti di innovazione è quello di verificare in avanti le nostre competenze.

C’è un ragionamento che chiunque può capire: del resto, se non troviamo una facoltà di intervento sugli over the top, come in parte profilato dall’Europa, rinunciamo alla sovranità nazionale. Se un singolo Paese non è libero di fare leggi perché i soggetti che agiscono sul suo territorio sono i veri Stati Uniti dell’Innovazione, è chiaro che questo rende la sovranità nazionale un elemento retorico ma non più percepibile. L’innovazione si produce e si protegge se si è in grado di dialogare con i giganti della rete, gli unici che strutturano, non solo tecnologicamente ma anche con incredibile stoccaggio dei contenuti, la profilazione dei dati degli utenti. Tutti compiti, questi, su cui uno Stato sovrano non può arretrare. Ogni volta che uno Stato perde questo controllo cambia natura, al punto da riconoscere una sorta di Costituzione materiale che limita lo Stato di Diritto.

Cosa riprendere e sviluppare: attenzione al genere e leadership nell’innovazione digitale
Sappiamo che la modernità italiana è stata in qualche modo abitata da donne. Quel poco di modernità comunicativa, intellettuale, formativa, che emerge come il lascito più importante delle società democratiche ha fatto un minimo di giustizia riequilibrando anche se non compiutamente un obiettivo di crescente parità.
Nella scuola e nelle Università, le donne sono leader di processo dal 1993 (poco prima che arrivasse la riforma del 3+2); hanno superato gli uomini, non solo quantitativamente, e già questa è una sorpresa. Pur essendo di meno, abbracciano di più l’alta formazione. Non è interessante il gesto di iscriversi, ma la scelta di vita. Donne sempre più colte e competenti, che nel mercato del lavoro trovano strozzature che diventano sempre più imbarazzanti rispetto al cambio d’epoca. Questo trend è meno chiaro sull’approccio di genere alla rete, e su questo occorrono interventi politici e certamente analisi (occorre anche tener conto che il lieve divario è progressivamente in via di dissoluzione). In ogni caso, per poter essere davvero moderni avremmo interesse che la leadership nella formazione si allarghi alla leadership nell’innovazione digitale.

Cosa desiderare per il 2018: puntare ad una maggiore equità dei provvedimenti che danno forza al “lavoro buono”
Le generazioni giovanissime non sono attanagliate dalla crisi quanto le generazioni immediatamente precedenti: avranno più possibilità anche grazie a un clima di opinione sempre più sfavorevole alla precarietà. Nessuno responsabilmente può dire che il Paese sia al disastro, neppure dal punto di vista del lavoro giovanile. Questa è una tipica narrazione elettorale alimentata da una politica disattenta alla sostenibilità delle proposte e dai media che amano giocare la carta dell’emergenza continua. Non si può raccontare un Paese all’anno zero. Nella stessa Università italiana, sempre dipinta come il luogo dei tagli lineari, sono stati realizzati investimenti selettivi per nuovi posti di ricercatore, e dunque sia per giovanissimi che studiosi già più formati. Altre misure provengono dalla cosiddetta “Garanzia Giovani”.
Eppure tocca dire che rispetto alla “macelleria sociale” che ha riguardato l’ultimo ventennio, le misure messe in campo non riusciranno ad antagonizzare il disagio e la frustrazione di due/tre generazioni. C’è in particolare sullo sfondo una generazione che rischia di essere, non in termini assoluti ma comparativi, più disperata di altre perché sembra quasi tagliata fuori per ragioni di età, e talvolta limiti di finanziamento, dai provvedimenti adottati, rischiando di alimentare un vero e proprio conflitto tra le generazioni.
Se vogliamo distribuire con maggior equità i provvedimenti che danno forza al “lavoro buono”, quello di cui parla l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (goal 8), non possiamo immaginare che le politiche siano solo orientate ai giovanissimi [1]. Ci deve essere una più approfondita analisi su tutti i cluster di generazione (20-30 anni, 30-40 anni, e non escludo che questo esercizio lambisca anche i 40-45enni), in vista di policies che riconoscano il loro diritto ad essere inclusi da un welfare finalmente consapevole.


* Studioso e professore di comunicazione, giornalismo e reti digitali. È Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni da marzo 2017. Fino al 20 dicembre 2016 è stato Prorettore alle Comunicazioni Istituzionali di Sapienza Università di Roma, dove ha diretto il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale

[1] Questo tema è stato affrontato in un’intervista a Mario Morcellini riportata nell’articolo di Simona Rossitto “La generazione dei 30-40 è sotto scacco, un costo economico per l’Italia”, Il Sole 24 ore, 7 febbraio 2018.

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