Merito e dirigenza pubblica: prime riflessioni sulle nuove proposte in materia di accesso alla qualifica dirigenziale
Il Disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 13 marzo scorso, promosso dal Ministro per la pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, introduce nuove disposizioni per lo sviluppo della carriera dirigenziale e la valutazione della performance del personale nelle pubbliche amministrazioni. Approfondiamo, in particolare, come il “Ddl Merito” modifica le modalità di selezione dei dirigenti pubblici
28 Marzo 2025
Alfredo Ferrante
Direttore generale della Presidenza del Consiglio dei ministri

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È stato approvato dal Consiglio dei ministri del 13 marzo il disegno di legge promosso dal Ministro per la pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, recante “Disposizioni in materia di sviluppo della carriera dirigenziale e della valutazione della performance del personale dirigenziale e non dirigenziale delle pubbliche amministrazioni”. Il provvedimento, subito battezzato come “Ddl Merito”, interviene su due elementi di assoluta rilevanza per il funzionamento della macchina pubblica, intimamente correlati: modalità di selezione e reclutamento della dirigenza e sistema di valutazione del personale.
Ponendo attenzione, in questa sede, al primo aspetto, nel testo si prevede un inedito meccanismo di “sviluppo di carriera” per funzionari e quadri per l’accesso alla dirigenza di seconda fascia delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici non economici, senza passare per la forma classica di un concorso, attraverso modalità di selezione che il Ministro ha definito più severe e trasparenti rispetto al concorso pubblico. Sul punto è naturalmente utile ricordare che la Costituzione prevede, all’articolo 97, che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. Un esempio ben noto di questi ultimi è rinvenibile nelle disposizioni di cui all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001 (o Testo unico sul pubblico impiego), secondo cui incarichi dirigenziali possono essere conferiti, senza l’ausilio di procedure concorsuali, entro limitate percentuali e a tempo determinato, “a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione”, che non infrequentemente viene utilizzato, in modo decisamente improprio, anche per personale interno.
Il ddl interviene, dunque, nello spazio di agibilità riservato alla legge ordinaria per articolare un nuovo percorso teso all’accesso alla funzione dirigenziale, ponendo mano, peraltro, a un quadro già particolarmente frammentato e complesso, e costruendo un iter aggiuntivo in tre tappe che permetterebbe ai dipendenti pubblici che hanno alle spalle almeno cinque anni come funzionari o due come “elevata qualificazione” di approdare a un incarico dirigenziale, sulla base di una quota del 30% dei posti a disposizione. Si parte dalla individuazione dei soggetti cui affidare l’incarico temporaneo, ad opera di una Commissione i cui componenti sono estratti a sorte, sulla base di una serie di elementi fra cui, accanto a una “prova esperienziale scritta e orale”, rileva una relazione del dirigente sovraordinato al candidato. Segue un periodo di prova (“osservazione”) di non meno di quattro anni e la valutazione finale ad opera della Commissione, i cui membri, tuttavia, sono soggetti a rotazione.
Novità ancor più rilevanti per la dirigenza generale, di prima fascia. Il ddl, infatti, sembra incidere in modo decisamente innovativo sul sistema binario attualmente in vigore, che si articola in un 50% di “transito” a posizioni generali per i dirigenti di seconda fascia che abbiano svolto con profitto le proprie funzioni per cinque anni e in un 50% di acquisizione della qualifica in esito al concorso pubblico per titoli ed esami, previsione la cui entrata in vigore è stata a lungo rinviata. Tale sistema viene modificato sostituendo il meccanismo di transito con una procedura di sviluppo di carriera analoga a quella prevista per la seconda fascia, senza, tuttavia, un esplicito coordinamento (almeno sulla base dei testi sinora circolati) con l’articolo 23, comma 1, del d.lgs. 165 del 2001, che disciplina detto meccanismo.
Nell’attesa di un testo definitivo e tenendo presente che il cammino in Parlamento comporterà, inevitabilmente, aggiustamenti di rotta e modifiche, appare in ogni caso chiaro l’intento del Governo, che mira a dare risposta alle legittime esigenze del personale dipendente in ordine alla progressione di carriera, rivedendo i canali di accesso alla dirigenza per quest’ultimo. Ad oggi, infatti, per i funzionari dello Stato che intendano passare nel ruolo della dirigenza si aprono tre sentieri ordinari (al netto dell’assai controverso accesso in quota “esterna”, prima richiamato, che dovrebbe restare residuale ed eccezionale): a) quello relativo al corso-concorso della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA), aperto a candidati esterni e interni alla pubblica amministrazione; b) quello caratterizzato dalle cosiddette “procedure comparative” bandite dalla SNA per coloro che abbiano prestato almeno cinque anni di servizio, per un massimo del 30% dei posti disponibili; e, infine, viste le disposizioni del recentissimo decreto-legge n. 25 del 2025, c) quello mediante concorsi pubblici unici organizzati dal Dipartimento della funzione pubblica, avvalendosi della Commissione per l’attuazione del progetto di riqualificazione delle pubbliche amministrazioni (RIPAM).
Il principio ispiratore appare condivisibile: in qualsiasi organizzazione – vale per il settore privato come per il settore pubblico – è buona norma guardarsi prima di tutto in casa e offrire possibilità di crescita che puntino alla valorizzazione dell’esperienza maturata e delle competenze acquisite nel corso del tempo da parte delle risorse interne, che costituiscono, è bene ricordarlo, il patrimonio proprio di ogni struttura complessa. Non va dimenticato, inoltre, che i possibili candidati allo sviluppo di carriera hanno, in ogni caso, già superato un concorso per entrare nella pubblica amministrazione. Il criterio, insomma, è quello di coltivare e far fruttare il proprio terroir, offrendo avanzamenti di carriera a chi dimostri sufficiente esperienza e attitudine alla leadership.
Non sembrano, invece, accoglibili le obiezioni piuttosto nette avanzate da taluni in termini di possibili favoritismi che potrebbero scaturire dall’applicazione della norma: pare, al contrario, potersi affermare che il meccanismo previsto, sia per quel che riguarda la composizione delle Commissioni esaminatrici, sia circa il quadro dei diversi elementi che giocano nella valutazione complessiva del candidato, garantisca un ragionevole livello di salubrità delle valutazioni. E, d’altro canto, la proposta può offrire alla dirigenza pubblica una leva formidabile nella gestione dei propri collaboratori in termini di motivazione e incentivi, valorizzando in concreto quelle risorse che abbiano particolarmente ben operato. La tenuta del processo, inoltre, resta in capo al dirigente, che avrà la possibilità, assumendosene la correlata responsabilità, di proporre chi valuti possedere adeguati caratteri comportamentali “inerenti le capacità di leadership e le attitudini manageriali” a una Commissione i cui componenti, in massima parte, sono dirigenti pubblici. È una sfida che la dirigenza non può non raccogliere, guadagnandone in autonomia, credibilità e maggiore (e sempre anelato) spazio nella gestione della struttura.
Inoltre, aspetto di non trascurabile portata, l’intervento operato dal disegno di legge casserebbe la su richiamata disposizione del T.U. che prevede che una quota non superiore al 30% dei posti dirigenziali è riservata da ciascuna amministrazione al personale con cinque anni di servizio a tempo indeterminato (articolo 28, comma 1-ter, modificato a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 80 del 2021): la selezione avviene “attraverso procedure comparative bandite dalla SNA, sulla base della valutazione conseguita, dei titoli professionali, di studio o di specializzazione ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, e in particolar modo del possesso del dottorato di ricerca, nonché della tipologia degli incarichi rivestiti con particolare riguardo a quelli inerenti agli incarichi da conferire, così da assicurare la valutazione delle capacità, attitudini e motivazioni individuali”. Al di là della assai poco comprensibile attenzione al possesso del dottorato di ricerca correlato all’esercizio di funzioni manageriali, è di tutta evidenza che la procedura in tre fasi avanzata dal disegno di legge offra maggior robustezza nella selezione del personale interno che aspiri al passaggio nel ruolo della dirigenza rispetto a procedure comparative la cui indeterminatezza potrebbe tradursi in una eccessiva discrezionalità da parte della singola amministrazione.
Orbene, tenuto in debito conto che l’insieme delle novità pensate per la selezione della dirigenza impatterà, ove adottate dal Parlamento, solo sul limitato, seppur rilevante, perimetro della dirigenza dello Stato e degli enti pubblici non economici, non interessando, ad esempio, regioni ed enti locali, alcuni elementi di carattere sistemico sembrano meritevoli di primaria considerazione.
Il primo. Rileva una piccola ma sostanziale – e perniciosa – modifica che interessa la percentuale dei posti riservati al meccanismo del corso-concorso della SNA per l’accesso alla dirigenza. Mentre, infatti, l’attuale formulazione dell’articolo 28, comma 1-ter, individua una percentuale non inferiore al 50 per cento dei posti da ricoprire, il disegno di legge del Governo prevede che l’accesso al ruolo dirigenziale non generale avvenga per il tramite della SNA per il 50% dei posti. Non un punto di più, non un punto di meno. Si fissa, quindi, una invalicabile asticella a fronte della odierna possibilità di prevedere percentuali ben maggiori. È un punto non trascurabile, ove si ponga attenzione alla indubbia accelerazione riservata all’organizzazione delle diverse edizioni del corso concorso negli ultimi anni, su impulso di diversi Esecutivi. La limitazione operata dal ddl, dunque, sembra operare un potenziale vulnus sul ruolo del corso-concorso che, nelle parole dell’Associazione dei dirigenti degli ex allievi della SNA, dal 1995 “ha mantenuto costanti alcuni elementi essenziali: una formazione approfondita e interdisciplinare, un periodo di tirocinio e la creazione di legami solidi tra i partecipanti, che costituiscono oggi una rete di contatti professionali consolidata e funzionale alla collaborazione tra amministrazioni. Questa rete rappresenta un vero e proprio catalizzatore positivo per l’azione pubblica, capace di innescare dinamiche virtuose e di moltiplicare l’impatto delle decisioni in contesti differenti”.
Il secondo. La previsione delle nuove fattispecie di sviluppo di carriera per il personale interno si pone evidentemente – ontologicamente, potrebbe dirsi – in contrasto con le previsioni di acquisizione dall’esterno di dirigenti, stabilita dal T.U. Se, infatti, la ragione profonda della proposta approvata dal Consiglio dei ministri è quella di lavorare sul “vivaio” dell’amministrazione, premiando il merito e innescando una spinta trasformativa in termini di sviluppo di capacità manageriali e orientamento al risultato, la logica conseguenza è che la crescita del patrimonio interno delle singole organizzazioni pubbliche è obiettivo strategico e di lungo periodo della PA. Il Legislatore dovrebbe, quindi, coerentemente scommettere su detto obiettivo, rivedendo, in senso decisamente restrittivo, l’istituto dell’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, che ha già potuto contare, nel tempo, su diversi interventi normativi che ne hanno esteso la portata di applicazione (come nel caso della clausola di stabilizzazione, prevista dall’articolo 3, comma 3, del decreto-legge n. 80 del 2021, del tutto incompatibile con l’intima ratio dell’istituto).
Il terzo. Le disposizioni del ddl si pongono in continuità con le modifiche introdotte, negli ultimissimi anni, circa il ruolo delle cosiddette soft skill nella valutazione complessiva delle risorse, dirigenziali e non dirigenziali, da impiegare nell’amministrazione, considerando ormai parte fondamentale del bagaglio del lavoratore pubblico non solo le conoscenze tecniche, pure indispensabili, ma anche la capacità di “saper fare” e “saper essere”. L’approccio, in altre parole, vira con decisione, pur tra mille difficoltà, verso l’orientamento al risultato nell’amministrazione pubblica, in cui la gestione delle risorse umane assume carattere di eminente importanza al fine del concreto raggiungimento degli obiettivi propri di ogni struttura. Acclarato che l’attore protagonista del processo non possa non essere il dirigente pubblico, facilitatore per eccellenza, è urgente e necessario il consolidamento dell’esprit de corps della dirigenza amministrativa dello Stato che, a differenza delle carriere prefettizie, diplomatiche e delle magistrature, ha sempre faticato nel percepirsi come gruppo, portatore di istanze e aspirazioni comuni. Spetta, naturalmente, alla stessa dirigenza fare un salto di qualità verso questa direzione, ma è compito del Legislatore rimodulare il sistema di reclutamento perché il decisore politico possa contare su una “dirigenza della Repubblica”. A fronte dei tanti rivoli, talvolta estemporanei, che hanno permesso l’accesso alla qualifica dirigenziale, il nuovo ddl rappresenta l’occasione di ripartire dalla centralità del concorso pubblico – nelle modalità aggiornate di cui si faceva cenno – attraverso modalità di reclutamento e formazione omogenee attraverso la SNA. Da questo punto di vista, un allargamento dello spazio riservato al meccanismo del corso-concorso, cui faccia da ideale e opportuno contraltare lo sviluppo di carriera immaginato nel ddl sul merito, consentirebbe il rafforzamento di una comunità di individui le cui competenze siano state testate e rafforzate nel quadro di un disegno unico e razionale.
Molto resta da fare per la continua risintonizzazione della nostra macchina pubblica e, al pari di Sisifo, sembra talvolta si sia condannati a vedere sfumare i propri sforzi con grande dispendio di energie. Le sfide si affastellano: basti pensare alla conduzione in porto del PNRR, al tema, messo opportunamente in luce dall’ultimo CCNL delle funzioni centrali sottoscritto lo scorso 27 gennaio, dell’age management, o, ancora, agli impatti, ancora tutti da immaginare, dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Il Rapporto Annuale 2024 di FPA ha efficacemente utilizzato il termina “PA aumentata”, per significare l’orizzonte necessario per fare dell’amministrazione pubblica un attore credibile in uno scenario nazionale e internazionale che muta repentinamente e sempre più imprevedibilmente. Lapidario l’ammonimento del Rapporto: “disinvestire di nuovo sulla macchina pubblica significherebbe, questa volta, ipotecare definitivamente la possibilità di modernizzare il Paese”. Una delle architravi che sostiene un quadro di riferimento così complesso, a servizio di cittadini e imprese, resta la dirigenza pubblica che, nelle parole del Ministro Zangrillo deve sviluppare “competenze trasversali, che vanno al di là della gestione amministrativa tradizionale, oltre che capacità di visione, senso di urgenza e propensione al cambiamento”. Le premesse sembrano esserci: l’imperativo puntare all’obiettivo.