Open data e ambiente, cosa imparare dall’esperienza di Formia
Il primo punto di forza del progetto è stata la dotazione economica: Formia ha beneficiato di un finanziamento, pari a circa 120.000 euro, a seguito di un bando promulgato dalla Regione Lazio, per diffondere la cultura dell’open data nelle pubbliche amministrazioni locali
24 Marzo 2016
Claudio Marciano, assessore all'Innovazione e alla Sostenibilità Urbana del Comune di Formia
Il Comune di Formia ha realizzato il progetto Open Data e Ambiente. E’ stato pubblicato un portale istituzionale con dataset e risorse in formato aperto sulle principali tematiche ambientali: rifiuti, mobilità, aria, acqua, territorio, verde. Il progetto è stato completato, e i risultati sono visibili qui.
Ho seguito il progetto in qualità di Assessore all’innovazione. Credo sia utile esporne i punti di forza e debolezza che potrebbero essere utili ad altre amministrazioni che volessero intraprendere percorsi simili al nostro.
Punti di forza
Il primo punto di forza del progetto è stata la dotazione economica. Formia ha beneficiato di un ingente finanziamento, pari a circa 120.000 euro, a seguito di un bando promulgato dalla Regione Lazio, per diffondere la cultura dell’open data nelle pubbliche amministrazioni locali. Non capita tutti i giorni di avere risorse così ingenti a disposizione per progetti innovativi, specie a Comuni di circa 40.000 abitanti.
Indubbiamente, il finanziamento ha consentito di reperire professionalità adeguate alla realizzazione dell’infrastruttura informatica e semantica, altrimenti irreperibili nella pianta organica comunale. Tuttavia, vi è stato anche un secondo aspetto abilitante: il progetto doveva essere realizzato perché dei fondi erano stati percepiti. Se la macchina si fosse opposta, non si sarebbe rispettata la time line del progetto, si sarebbe avuta difficoltà nella rendicontazione, sarebbero emerse delle responsabilità. Il codice obbligazionario ha supportato la volontà.
Il secondo punto di forza è stata la disponibilità dell’Amministrazione a rilasciare dati solitamente scottanti. Su questo l’engagement della parte politica è stato importante, tuttavia, va anche considerato un altro fattore: nella maggior parte dei casi, i dati rilasciati, testimoniano una situazione abbastanza positiva. Sui rifiuti e sulla qualità delle acque idriche e marine, sebbene con profili di miglioramento, Formia presenta una situazione serena. A rinforzare questo presupposto c’è il comportamento esattamente contrario tenuto da altri Enti nel voler rilasciare dati pertinenti al territorio di Formia, ma non di responsabilità diretta del Comune. Quindi, dati aperti, purché buoni? Meglio di no, ma per noi è stato così.
Il terzo punto di forza è stata la professionalità del team selezionato. Formia avrebbe potuto promulgare un appalto ad aziende private: scelta di governance che hanno seguito molti altri Comuni. Abbiamo preferito fare una scelta diversa: costruire noi il team. Perché? Perché sentivamo il bisogno di avere un approccio olistico e non puntuale sull’Open Data. Ovvero: siamo un Comune molto arretrato dal punto di vista digitale, abbiamo un percorso lungo da intraprendere, all’improvviso abbiamo le risorse ma non le competenze. Che facciamo? Ci mettiamo in mano ad un soggetto privato, che necessariamente somministra soluzioni standard per garantire la scalabilità del suo modello di business, oppure costruiamo noi dal basso una squadra che può plasmare un modello adeguato ai nostri bisogni? Un open data alla formiana?
La seconda, ovviamente. E’ stato promulgato un bando per sette professionisti, cinque in ambito informatico e due in quello ambientale. La commissione è stata costituita da professionisti del mondo Open Data. Hanno vinto sette esperti con meno di 40 anni, con dottorati di ricerca e master di secondo livello alle spalle, e con esperienze di lavoro all’estero. Anche l’aspetto occupazionale, in questo caso, ha costituito un punto di forza del progetto, sebbene lo abbia esposto maggiormente alla vulnerabilità dei ritardi con cui sono stati erogati i finanziamenti. Non c’era un’azienda ad anticipare ai consulenti le fatture, e l’attesa di oltre un anno per la copertura delle spettanze, ha rallentato e forse anche indebolito l’efficacia definitiva del progetto. Questo ci porta dritti verso i punti di debolezza, che sono tanti, ma che racchiudo per par condicio in tre gruppi.
Punti di debolezza
Il primo punto di debolezza del progetto è stato il suo deficit sociologico. Sono Ph.D in Scienze della Comunicazione, ho una formazione da scienziato sociale. Questo tuttavia, non mi ha consentito di sovrastimare i bisogni di competenze hard e di sottovalutare invece lo skill relazionale, nonché quello legato all’analisi dei dati. Il team di esperti selezionato ha visto infatti cinque ingegneri informatici e due ingegneri ambientali. Nella pratica, mi sono reso conto che ne bastavano la metà. Avrei invece avuto bisogno di maggiori risorse per impostare un’impalcatura informazionale del sito più coerente con gli obiettivi dell’Amministrazione, per facilitare il reperimento dei dati da chi opponeva barriere e rifiuti, per organizzare più comunità attorno al progetto, che purtroppo, è finito per essere troppo orientato alle Istitutizoni e troppo poco ai cittadini, alla community degli innovatori, anche locale.
In effetti, da questa esperienza si possono trarre due problematiche, aperte per tutti i Comuni che intraprendono il cammino dell’innovazione digitale: la prima, è che è necessario sistematizzare un nucleo fondamentale di conoscenze per formare esperti nel campo Open Data; la seconda è che la logica disciplinare dell’Accademia, e quella ancora più rigida del concorso pubblico in cui deve essere specificata una competenza prescritta da un organo universitario ufficiale, rischiano di essere limitanti per il futuro. Del resto, è ora di rinnovare le piante organiche dei Comuni con competenze al passo con i tempi.
Il secondo punto di debolezza è stata la bulimia politica e la scarsa fiducia nell’Open Data come paradigma a se stante. Dico la verità: ho fatto fatica a pensare all’Open Data come fine del progetto. Il senso del dato aperto è il suo rifiuto della proprietà. Questo è vero sia per il formato, sia per la gratuità del suo rilascio, ma anche per il suo significato. Chi produce, raccoglie e rilascia un dato aperto deve sapere che non è proprietario nemmeno del suo senso. Può immaginarlo, e deve, perché deve corredare la risorsa con dei metadati. Tuttavia, quel dataset sui rifiuti potrà servire ad una start-up che pianifica le vacanze per turisti tedeschi, oppure quello sui parcheggi potrà essere utile per la redazione di un piano del commercio. La smart city esprime l’interdipendenza tra i sistemi complessi di una città svuotandoli, essenzialmente, della loro riflessività: non producono più solo per se stessi, non generano più solo codici che possono capire solo i loro elementi costitutivi. Parafrasando Troisi, se la poesia non è di chi la scrive, il dato non è di chi lo rilascia.
Questo non lo abbiamo capito. Abbiamo quindi insistito da un lato, nel reperire dati completamente inutili ma espositivi di buoni risultati dell’Amministrazione, dall’altro, non abbiamo lavorato abbastanza per coinvolgere altri soggetti produttori di dati. La piattaforma quindi si è fermata nel momento in cui è nata.
Il terzo punto debole, quello probabilmente più riscontrato anche in altri casi, è stato quello del reperimento dei dati. Infatti, i dati non ci sono. Quando ci sono, li trovi in formati non aperti. Quando finanche hai la fortuna di averli aperti, non sono in serie storica. E quando, finalmente, hai un dato che rilasciare in formato aperto ha un senso, trovi il Tabù (e il Totem, subito dietro): cioè il rifiuto. Ora, ci sarebbe tanto da dire sulle altre evenienze, ma vorrei concentrarmi sull’ultima.
La barriera culturale al dato aperto, al suo rilascio, nella Pubblica Amministrazione dipende da molteplici fattori, che sono facilmente intuibili. La burocrazia, si fonda sul presupposto che il potere della “carta” sia tale perché rimane saldamente chiusa in un cassetto, alla mercé del tempo e della disponibilità di chi può decidere il suo esito. Tuttavia, al netto delle cattive coscienze, la burocrazia è anche e soprattutto una pratica sociale. E’ un insieme di norme, di ruoli, di codici che hanno plasmato un universo simbolico e istituzionale, interiorizzando dei valori che sono difficili da scalfire con un’innovazione che, di fatto, si basa su presupposti filosofici esattamente inversi.
Per abbattere il Tabù e il suo Totem, abbiamo agito nel modo più stupido: prima abbiamo cercato di usare “le buone”, poi, con chi potevamo, cioè i settori del Comune, le “cattive”. In entrambi i casi non abbiamo ottenuto i risultati, perché il problema era il linguaggio. Ovvero l’oggettivazione primaria che rende una pratica densa di significato in un particolare contesto. E qual è il linguaggio della pubblica amministrazione cresciuta a pane e stampante? La formalità. L’atto amministrativo ha una sua sintassi e una sua semantica, e noi non l’abbiamo seguita.
Conclusioni
Cosa voglio dire? Che per cambiare la PA bisogna incidere sui suoi meccanismi strutturali e comprenderne i codici di funzionamento. Per questo, l’Open Data va reso obbligatorio per legge, ma sul serio, non lasciando le amministrazioni libere di decidere cosa va e cosa non va in quel formato. Non è coercizione: è il pane quotidiano degli uffici, che si muovono in un sistema di regole, di punizioni, di sorveglianze, e di altri dispositivi di controllo. L’Open Data va previsto nei contratti per l’erogazione di servizi pubblici, negli appalti e nelle concessioni, non come parte migliorativa, ma necessaria alla partecipazione.
D’altra parte, questo crea una maggiore riserva di dati ma non risolve il problema della comunità che deve sostenere qualsiasi progetto Open Data. I portali rischiano di riprodurre una logica formale e anonima come quello di un ufficio statistico anagrafico, solo un po’ più evoluto dal punto di vista tecnologico, se non si riesce a coinvolgere la comunità attorno alle piattaforme. Riprendendo una celebre definizione sociologica, l’Open Data a livello urbano ha bisogno di una Gemeinschaft, di un ecosistema sociale fondato sulla reciprocità e l’interdipendenza, sulla partecipazione anche emotiva di un gruppo. Agli amministratori locali oggi spetta il compito di trovare risorse, in primis relazionali, per riuscire ad aggregare, a far sentire l’Open Data un paradigma per plasmare la modalità di condivisione delle informazioni ma anche un pretesto per stabilire collaborazioni e partnership. E, per fare questo, non ci vogliono i quattrini europei o comunali, ci vuole entusiasmo, conoscenza e voglia di fare.