Open innovation, che cos’è e come si applica alla PA

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Ecco una breve guida (in aggiornamento) all’open innovation, un modello di innovazione aziendale che potrebbe essere validamente applicato anche al contesto delle pubbliche amministrazioni. Vediamo in cosa consiste l’open innovation, i diversi modelli esistenti, alcune esperienze pratiche e casi d’uso nel business

23 Settembre 2021

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Jacopo Naidi

Esperto di business transformation, fondatore di OpenMarketplace.it

L’Open innovation, “Innovazione aperta”, è un modello di innovazione che, come dice il termine stesso, si apre all’esterno; non si fonda sull’autosufficienza della propria organizzazione, ma trova un valore aggiunto e genera nuovi modelli di business nell’interazione con il mondo esistente al di fuori delle mura aziendali, nella sinergia di idee, prodotti e competenze che risiedono in altri soggetti, come startup, università, centri di ricerca.

Open innovation: che cos’è

Partiamo con una definizione formale: “l’open innovation è un processo di innovazione diffuso basato sulla gestione dei flussi di conoscenza in entrata o in uscita dall’impresa realizzata utilizzando meccanismi monetari e non monetari a seconda del modello di business dell’impresa stessa” [1]. In sostanza, questa definizione ci affida un imperativo: per fare innovazione, non puoi operare da solo, devi aprire la tua organizzazione all’esterno e intercettare lì la conoscenza che la tua impresa non possiede e di cui necessita.

Per fare un esempio banale, utile solo a capirci meglio, pensate a un’azienda nel settore vitivinicolo che decide di creare un’etichetta intelligente, capace di essere scansionata con lo smartphone e di restituire le informazioni più puntuali sul processo produttivo adottato dall’azienda in questione. Per farlo ha due strade: assumere risorse umane, prototipare, testare e infine implementare il progetto da sé, oppure cercare all’esterno una startup che abbia già sviluppato il prodotto di cui necessita. Nel secondo caso, l’Azienda riesce a ridurre tempo, costi e rischi, facendo al contempo innovazione e sviluppando oltretutto il proprio network.

L’intuizione di modellizzare un approccio all’innovazione fondato sul contesto esterno, è da attribuire a H. Chesbrough, che nel 2003 scrive “Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology”, pubblicato lo stesso anno da Harvard Business School Press. Da allora il modello si è ovviamente evoluto, adattandosi al contesto economico sempre in profondo rinnovamento. Sul tema oggi esistono molti approfondimenti – si vedano ad esempio i report pubblicati da Fondazione Cotec, Mind the Bridge con il supporto di SMAU, o più recentemente da Gellify. L’approccio, al contrario di quanto si possa immaginare, non è più utilizzato soltanto dalle grandi aziende – si veda ad esempio il caso Procter & Gamble richiamato nel libro “Il futuro dell’open innovation” di H. Chesbrough – ma sta diventando sempre più un modello di innovazione diffuso anche tra le PMI; l’“Osservatorio Open Innovation 2020”  evidenzia infatti che tra il 2019 e il 2020 c’è stata una crescita del +27.75% negli investimenti in startup proprio da parte delle piccole e medie imprese.

I due modelli di open innovation

Esistono due forme di open innovation: quella dall’esterno all’interno, e quella dall’interno all’esterno; chiameremo la prima “outside-in” e la seconda “inside-out”.

Il modello outside-in

La prima strada – outside-in – richiede che l’impresa apra i propri processi di innovazione a diversi tipi di input e contributi di conoscenza esterni. Nella dimensione aziendale, questo approccio viene messo a terra con due modalità: se l’azienda è interessata a partecipare al capitale della/e startup di cui necessita, attiva lo strumento del “Corporate Venture Capital”; se l’azienda non è interessata a partecipare al capitale sociale della startup, attiva i cosiddetti “Programmi di startup”. [2]In sostanza, nella prima strada l’Azienda struttura un percorso societario condiviso con la/le startup, nella seconda invece “ospita” nella propria sede – fisica o virtuale – le imprese innovative capaci di stimolarla a generare innovazioni proprie.

Il modello inside-out

La seconda strada richiede invece alle imprese di consentire che le conoscenze che esse non utilizzano o sottoutilizzano – si pensi ad esempio ai brevetti depositati ma mai sfruttati – escano all’esterno e vengano messi a disposizione di chi desidera sfruttarle nella propria attività e nei propri modelli di business. Anche qui, ci sono due approcci: nel caso in cui l’impresa sia interessata a partecipare al capitale sociale della/e startup intercettate, attiverà lo strumento del “Corporate Incubation”, altrimenti creerà una “Piattaforma di startup” attive nella valorizzazione spontanea – riprendendo l’esempio – dei propri brevetti non sfruttati o sotto-sfruttati.

Open innovation nella pubblica amministrazione

Fin qui abbiamo parlato di aziende…ma come si declina l’open innovation nella Pubblica Amministrazione? Cosa possiamo trattenere da questo modello d’innovazione aziendale per fare innovazione nella PA? Un primo esempio ci viene da Londra, dove “Transport for London”, l’ente responsabile di gran parte del network di trasporti della capitale inglese, ha adottato il modello Open Innovation con lo scopo di migliorare l’efficienza dei mezzi nonostante i vincoli di budget e l’invecchiamento delle infrastrutture fisiche. Per farlo l’organizzazione ha adottato il modello “inside out”: in questo caso, anziché i brevetti come nell’esempio sopra riportato, Transport for London ha realizzato che il bene sotto-sfruttato da mettere a valore fossero i dati prodotti dalle vetture attraverso i sensori al loro interno. In questo senso quindi ha collaborato con le imprese innovative inglesi perché potessero liberamente sfruttare i dati in questione e sviluppare nuovi sistemi capaci di monitorare l’affollamento nelle vetture della rete metropolitana e indicare ai passeggeri in attesa dove sostare per salire a bordo di una carrozza meno affollata. Questo in definitiva ha migliorato il processo di imbarco e permesso di ridurre il tempo di attesa del treno sulla piattaforma.[3]

Se vogliamo fornire non solo spunti di riflessione, ma anche indicazioni su come mettere in pratica questo approccio in Italia, lo sforzo che dobbiamo fare è prendere ciò che si può dai modelli aziendalistici sopra descritti in estrema sintesi, adattarli e sperimentarli. Per farlo, anche in questo caso il punto di partenza sono alcuni casi concreti già  presenti nel nostro Paese. Lo faremo in alcuni articoli di prossima uscita, che faranno tappa a Roma, recentemente patrocinante di Open Challenges, l’iniziativa di social responsibility di Open Marketplace che include i giovani per individuare le imprese innovative più utili alla modernizzazione delle città; nei capoluoghi di provincia dell’Emilia-Romagna, dove vive l’interessante realtà dei “Laboratori Aperti” e per il Consiglio Regionale del Lazio che ha licenziato la legge sugli “Open Innovation Center”. 

Obiettivo: creare una guida rapida per l’innovazione aperta nella PA

A partire da questo primo contributo, vogliamo realizzare una rubrica sull’open innovation nella pubblica amministrazione, non solo per comprendere come si declina questo modello di innovazione in un contesto diverso da quello privato, ma anche per restituire al termine del percorso una via pratica e percorribile per le organizzazioni interessate a implementarne l’approccio. Saremo, quindi, pragmatici con l’obiettivo di restituire al termine del percorso una vera e propria guida pratica all’open innovation nella PA, consci delle potenzialità in termini di portata innovativa che questo modello può offrire.

Per questo sono preziosi come sempre i suggerimenti che arriveranno da voi: potete inviare le vostre osservazioni, esperienze o suggerimenti di pubbliche amministrazioni che stanno adottando questo modello di innovazione all’indirizzo redazione@forumpa.it con oggetto “Open innovation nella PA”.


[1] Si veda H.W.Chesbrough e M. Bogers, in Chesbrough, Vanhaverbeke e West, New Frontiers in Open Innovation, Oxford University Press, Oxford, 2014, p.1.

[2] Il futuro della Open Innovation: creare valore adll’innovazione aperta nell’era della tecnologia esponenziale – Henry Chesbrough, 2021

[3] Open Data Institute (2016) Caso di studio: Transport for London. Londra, Regno Unito


L’autore: Jacopo Naidi. Esperto di business transformation, per FPA cura la rubrica mensile “Open Innovation nella PA”. Attualmente il ventiseienne è Innovation Consultant presso Fondazione Giacomo Brodolini e PTSCLAS S.p.A; quest’ultima ha recentemente investito in OpenMarketplace.it, il portale italiano per lo scouting di imprese innovative in ottica Open Innovation, di cui Naidi è fondatore. Innamorato della cultura Open e vicino ai temi della sostenibilità, ha inoltre fondato la community no-profit Phoenix Factory, che offre ai giovani under 30 di formarsi gratuitamente sui temi del project management, con lo scopo di promuovere la nascita di iniziative che affrontino uno dei 17 obiettivi di sostenibilità 2030. Naidi è stato selezionato su base nazionale nel 2019 da Fondirigenti tra i 50 giovani under 30 per il master “D20 Leader” e da Fondazione Barletta nel 2020 tra i 35 giovani premiati dell’anno con l’onorificenza “Myllennium Award”. 

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