Ragionare sulla pubblica amministrazione nel tempo della crisi
Riceviamo un interessante contributo da parte di Pietro Barrera, direttore del centro didattico permanente Luigi Pianciani della Provincia di Roma. Si tratta di un corposo documento che riprende l’intervento tenuto il 14 settembre scorso ad un seminario organizzato dalla fondazione “Luoghi Comuni”. In particolare, dopo una dura analisi della situazione politica ed economica del Paese e del nostro sistema pubblico, in cui non mancano critiche al Governo, Barrera illustra la sua idea per una “rifondazione” della pubblica amministrazione, qualcosa di molto simile a quel “new deal” proposto da Carlo Mochi Sismondi nel suo editoriale di inizio settembre. Lasciando ai lettori la possibilità di scaricare il documento in formato integrale, riportiamo di seguito alcuni passaggi che ci sembrano particolarmente rilevanti. La PA non è assolutamente tutta da buttare, ma la crisi ci obbliga a ripensare fortemente alcune impostazioni chiamando le amministrazioni a ripensare il loro ruolo in termini di valore per la comunità e, soprattutto, di sostenibilità per il sistema.
20 Settembre 2011
Redazione FORUM PA
Riceviamo un interessante contributo da parte di Pietro Barrera, direttore del centro didattico permanente Luigi Pianciani della Provincia di Roma. Si tratta di un corposo documento che riprende l’intervento tenuto il 14 settembre scorso ad un seminario organizzato dalla fondazione “scaricare il documento in formato integrale, riportiamo di seguito alcuni passaggi che ci sembrano particolarmente rilevanti. La PA non è assolutamente tutta da buttare, ma la crisi ci obbliga a ripensare fortemente alcune impostazioni chiamando le amministrazioni a ripensare il loro ruolo in termini di valore per la comunità e, soprattutto, di sostenibilità per il sistema.
Qualche anno fa un noto e apprezzato manager pubblico si domandò cosa sarebbe accaduto: se, per sortilegio, fosse scomparsa d’improvviso la sua amministrazione (un grande Comune). Un quarto dei cittadini – sospettava – ne sarebbe stato sollevato (meno tasse, meno seccature, meno regole da rispettare); un quarto ne sarebbe stato tragicamente colpito (niente più servizi sociali, aiuti, sostegno); la metà avrebbe faticato ad accorgersene!
Forse esagerava, spero che esagerasse. Ma il punto c’è. È difficile parlare di tagli agli organici e alle retribuzioni, di fonti regolative e di relazioni sindacali, se nel corpo vivo della società vacilla la consapevolezza dell’utilità degli apparati pubblici, e delle funzioni loro affidate.
Per questo, prima della denuncia, e persino prima delle proposte di riforma, dobbiamo ripartire dal valore delle cose. C’è bisogno di una grande iniziativa culturale, in grado di mettere in piena luce i mille volti della pubblica amministrazione. C’è la pa di cui non ti accorgi: i servizi impalpabili e “notturni”, eppure essenziali per la vita di ciascuno e per il futuro dell’Italia (la sicurezza, le infrastrutture urbane, la protezione del suolo e dell’ambiente). C’è la pa di cui ti accorgi solo nel momento del (tuo) bisogno, quando le cose per te si mettono male (la sanità, l’assistenza, la previdenza, l’insieme dei servizi sociali, la protezione civile, i vigili del fuoco). C’è la pa che è motore di ricchezza, sviluppo, nuove opportunità per l’economia del paese (dalla protezione e valorizzazione del patrimonio culturale, alla ricerca di base). E, come abbiamo già ricordato con l’articolo 3 della Costituzione, c’è la pa indispensabile per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”: quella che può portare le opportunità dove non arriva il mercato, può dare una chance a chi resta indietro, deve aiutarci ad essere comunità.
È altrettanto importante capire e far capire quali prestazioni pubbliche debbono essere assicurate a tutti – ricchi e poveri, potenti e diseredati – perché sono parte del nucleo essenziale della cittadinanza: guai a cadere nel tranello populista secondo cui non è giusto offrire gratuitamente l’istruzione di base ai figli dei ricchi o le prestazioni sanitarie fondamentali a chi ha un reddito elevato. Sembra giusto, sembra equo, ma è l’anticamera dello Stato minimo, degli ospizi compassionevoli per i poveri, del degrado della scuola pubblica e di ogni servizio di base (del resto è il principio di universalità che spiega e legittima la progressività dell’imposizione fiscale).
È necessario ripartire da qui anche per affrontare i singoli nodi concreti imposti dalla crisi: le Province, i piccoli Comuni, gli enti pubblici di minori dimensioni, i singoli Ministeri da “dimagrire”, gli istituti previdenziali da unificare, e persino un oggetto misterioso come il Cnel. O se ne coglie e si comprende – caso per caso, amministrazione per amministrazione – i compiti, le funzioni, il valore nella vita reale dei cittadini, delle imprese, delle famiglie, o diventa inevitabilmente autoreferenziale, e alla fine perdente, ogni strategia di “difesa”.
In questo, naturalmente, occorre avere coraggio e coerenza. Se è vero che la sostenibilità finanziaria del modello europeo di welfare/pa è messa in discussione da fattori oggettivi (la globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione; nuovi e maggiori bisogni, con minori risorse); se è vero che in Italia, a minare la credibilità della pa, si aggiunge un infernale miscela di corporativismo, clientele, sprechi, e inefficienze, occorre allora essere severi nelle analisi e rigorosi nelle proposte, e non cedere alle nostalgie.
Il punto non è quello di scovare quanto di utile si fa, tutto sommato, in ogni amministrazione pubblica (facendo un po’ come accade nelle nostre case, dove non riusciamo mai a buttare nulla perché ogni oggetto a qualcosa è servito, o potrebbe servire a qualcosa!), ma di capire – ripeto, partendo dalle funzioni e dai bisogni pubblici a cui si vuole offrire risposta – se quell’assetto organizzativo è il migliore, il più efficace, il più “sostenibile” in una contingenza di drammatica crisi finanziaria. Questo è il modo, ad esempio, per affrontare seriamente la questione delle Province o dei piccoli Comuni. Non si può improvvisare, andare a zig-zag, con la superficiale illusione di “fare cassa”. Perché è ingiusto, perché è irresponsabile giocare in modo così disinvolto con la Costituzione e con gli assetti istituzionali del paese, ma anche perché, quasi certamente, non si raggiungerà nessuno dei risultati auspicati.
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La sfida portata dalla crisi è terribile, e non ammette conservatorismi. In questo senso è anche una opportunità. Se si mette da parte l’improvvisazione di queste settimane, si può davvero aprire un cantiere di riforme urgenti, per avere una pa che costi meno e faccia meglio.
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Al tempo stesso dovremo capire e far capire che la sacrosanta ricerca dell’efficienza e dell’economicità non trasformerà mai l’amministrazione pubblica in una impresa “normale”: perché la p.a. non può delocalizzare scuole ed ospedali in paesi dove il lavoro costa meno, perché il trasporto pubblico deve raggiungere anche i villaggi di montagna lungo percorsi impervi e “costosi”, perché chi organizza i servizi di base non può pensare di “chiudere” nelle zone più difficili e degradate, come sarebbe ragionevole per ogni imprenditore, che rinuncia ad essere presente dove “non conviene”.
E poiché non è affatto vero che tutte le amministrazioni pubbliche sono uguali – per efficacia, razionalità organizzativa, buon uso delle risorse dei cittadini – dobbiamo essere lucidi nell’individuazione delle buone pratiche, degli esempi migliori da replicare – vale per le Asl e per i Comuni, per le cancellerie dei tribunali e per gli uffici periferici dei diversi ministeri – lasciando da parte le troppo facili assoluzioni per chi si accontenta di vivacchiare colpevolmente con standard assai peggiori.
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