Regole fra forma e sostanza

Più o meno è tutta la vita che mi occupo del rapporto tra forma e sostanza nelle regole, almeno da quando alla licenza liceale decisi di discutere il rapporto, per nulla scontato nonostante l’eroismo della fanciulla, tra leggi scritte e leggi non scritte nell’Antigone di Sofocle. Questi giorni, quindi, mi fanno stare con le antenne alzate e, sempre dal mio piccolo posto di osservazione sulla pubblica amministrazione e la sua faticosa riforma, mi fanno molto pensare. Anche ora, infatti, un diritto sostanziale, votare liberamente, si è scontrato con un altro diritto sostanziale, dato dal rispetto delle regole del gioco, in cui la forma è essa stessa sostanza.

9 Marzo 2010

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

Più o meno è tutta la vita che mi occupo del rapporto tra forma e sostanza nelle regole, almeno da quando alla licenza liceale decisi di discutere il rapporto, per nulla scontato nonostante l’eroismo della fanciulla, tra leggi scritte e leggi non scritte nell’Antigone di Sofocle. Questi giorni, quindi, mi fanno stare con le antenne alzate e, sempre dal mio piccolo posto di osservazione sulla pubblica amministrazione e la sua faticosa riforma, mi fanno molto pensare.
Anche ora, infatti, un diritto sostanziale, votare liberamente, si è scontrato con un altro diritto sostanziale, dato dal rispetto delle regole del gioco, in cui la forma è essa stessa sostanza.
Al di là delle considerazioni di parte che qui non mi interessano né mi fanno velo, per cui ciascuno è portato a mettere degli occhiali colorati per guardare la realtà, qui sta la questione. 

Ma in che modo questa storia così pasticciata c’entra con la riforma della Pubblica Amministrazione? Credo che vi sia senz’altro chiaro: è perché ad ogni piè sospinto, nella gestione della macchina pubblica, la sostanza deve trovare un accordo con la forma.
Deve farlo, ad esempio, in una procedura di gara, quando basta la mancanza di una firma sul lembo di una busta per essere esclusi, anche se non ci sono dubbi sulla “sostanziale” validità della candidatura. Deve farlo nelle procedure di spesa, dove la “sostanziale” volontà politica non può che trovare contrappesi nel rigoroso rispetto anche formale delle regole della finanza pubblica. Deve farlo nell’ammissione ai concorsi pubblici, dove la formalità, che a volte è vissuta come un orpello, è anche garanzia di trasparenza e di uguali opportunità, anche a costo di penalizzare qualcuno.

Eppure, quando si leggono le norme spesso bizantine che regolano alcuni aspetti dell’amministrazione (e la presentazione delle liste elettorali è tra queste), è lecito chiederci se sono così complicate per una ragione di sostanza o solo per un affastellarsi di provvedimenti successivi e una sciatteria nella valutazione dell’impatto della regolamentazione. O forse lo sono perché, come i cartelli che impongono improbabili limiti di velocità a 20 km/h, creino situazioni in cui la violazione divenga normale, dando così un enorme ed arbitrario potere a più o meno distratti o interessati controllori.
Viene poi da chiedersi, ed è la domanda che più mi gira in testa in questi giorni, se queste formalità sono necessarie e sufficienti per la vita democratica di un Paese.
A meno di essere pericolosamente di parte, la risposta non può essere semplice, ma deve, a mio parere, essere chiara ed univoca.

Sì, le regole formali sono necessarie. Sì, il loro rispetto garantisce la democrazia e le pari opportunità. Sì, la loro integrale osservanza non può che essere alla base della convivenza democratica e, quindi, deve far premio su qualsiasi altro diritto, perché senza “il diritto” non ci sono diritti garantiti per nessuno ed il diritto non può essere strattonato per coprire situazioni contingenti anche delicatissime.
No, il rispetto sostanziale delle regole non basta. No, non basta perché questo rispetto non ha impedito né il crack della Parmalat né gli abusi degli “appalti-emergenze”. No, non basta perché ancor oggi il candidato di un concorso pubblico non ha garanzie di essere valutato per il suo merito, nonostante il rispetto formale delle norme. No, non basta soprattutto perché la manutenzione della normativa è stata fatta poco e male, perché abbiamo un corpus di leggi e di norme (comprese le norme elettorali) vecchio e sciatto, perché è in questa nebbia di detto e non detto, di scritto e non applicato, di prassi patologicamente diversa dalla norma che si annida il malaffare, la corruzione, l’arbitrio.

Il nostro sforzo di cittadini e classe dirigente non può essere quindi che duplice: da una parte dobbiamo impegnarci sempre più perché la “forma” sia al servizio della sostanza, perché le norme siano semplici, giuste, chiare, trasparenti e universalmente note, soggette ad un’accurata manutenzione che tagli con attenzione tutto quel che non serve; dall’altra dobbiamo essere intransigenti nel rispetto delle norme che ci sono: esse vanno sempre e comunque applicate e sono sacre, perché è con esse che si scrivono le pagine del nostro vivere civile in libertà, e senza libertà non c’è né sviluppo né qualità della vita, né democrazia.

Per questo il recente decreto legge che interpreta le regole del gioco, a gioco in corso e in forma chiaramente deviante rispetto alla prassi e alla norma corrente, è sciagurato e pericoloso: perché fa vincere sì la “sostanza” del diritto di voto, ma lo fa calpestando qualcosa che è un bene comune primario, più importante ancora del diritto di voto, che è il diritto al rispetto delle norme vigenti.
Non lo dico solo io per fortuna: è un discorso vecchio. In questi giorni confusi sono andato a rileggermi due Dialoghi di Platone, che tengo nello scaffale più vicino della mia libreria: l’Apologia di Socrate e il Critone. Se vi capita di rileggerli, proverete probabilmente anche voi lo stesso sgomento nel riconoscere, a tanti secoli di distanza, la stessa lotta tra le leggi e chi per mille ragioni, anche buone, anche condivisibili, le vuole tenere in non cale. Sta ancora una volta a noi scegliere da che parte stare.

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