Renzi e la riforma della PA
Ho ascoltato con soddisfazione il Presidente Renzi parlare dell’efficienza della PA come della riforma “madre” di tutte le riforme. Ed in effetti l’efficienza della macchina pubblica è un prerequisito fondamentale per l’attuazione di qualsiasi policy. E’ senz’altro un bene quindi che il tema della “buona amministrazione” torni, dopo qualche anno, ad essere al centro della politica più alta. Devo confessare però che sono rimasto un po’ perplesso quando ho sentito dire che “ad aprile riformeremo la PA”. In un mese, se sono veloce, posso scrivere un saggio, arredare una casa, fare un viaggio, cominciare una bella relazione d’amore; non posso riformare l’amministrazione neanche se voglio, perché questo lavoro è un processo, non un evento. Posso, è vero, mettere in campo (Dio ce ne scampi) un’ennesima legge delega, ma temo che una legge non si sia rivelata in questi ultimi vent’anni lo strumento adeguato per cambiare le cose davvero. Che fare allora per dare un segnale forte che “si cambia verso” come recita lo slogan vincente di Matteo Renzi, che io giudico non una minaccia, ma una grande opportunità?
27 Febbraio 2014
Carlo Mochi Sismondi
Non ho potuto che ascoltare con soddisfazione il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri parlare dell’efficienza della pubblica amministrazione come della riforma “madre” di tutte le riforme. Ed in effetti l’efficienza della macchina pubblica è un prerequisito fondamentale sia per l’attuazione di qualsiasi policy, sia per il suo stesso disegno. Superata la fase del “separazionismo ingenuo” tra politica ed amministrazione che divideva (fittiziamente) i due mondi con la spada e assodato ormai che le due funzioni devono essere sì “distinte”, ma mai separate, a pena di non riuscire a rispondere ai bisogni per cui le amministrazioni esistono, è senz’altro un bene che il tema della “buona amministrazione” torni, dopo qualche anno, ad essere al centro della politica più alta.
Conosco abbastanza bene il Presidente e molto bene i suoi più stretti collaboratori per questi temi e quindi so di dire cose che in linea di massima condividono, ma devo confessare che sono rimasto un po’ perplesso quando ho sentito dire che “ad aprile riformeremo la PA”. In un mese, se sono veloce, posso scrivere un saggio, arredare una casa, fare un viaggio, cominciare una bella relazione d’amore; non posso riformare l’amministrazione neanche se voglio, perché questo lavoro è un processo, non un evento. Posso, è vero, mettere in campo (Dio ce ne scampi) un’ennesima legge delega, a cui far seguire decreti delegati e poi norme secondarie e magari chiamarla “Riforma Renzi”, affiancandola alla Riforma Bassanini, alla Riforma Brunetta, ecc. Ma temo che una legge non si sia rivelata in questi ultimi vent’anni lo strumento adeguato per cambiare le cose davvero.
Che fare allora visto che di questo stato di cose siamo profondamente insoddisfatti? Visto che l’amministrazione fa ancora tanta fatica, nel suo complesso e con tante lodevoli eccezioni, a rispondere alle richieste dei cittadini e delle imprese? Che fare per dare un segnale forte che “si cambia verso” come recita lo slogan vincente di Matteo Renzi, che io giudico non una minaccia, ma una grande opportunità?
Non la voglio fare lunga, ma credo che dovremo cercare di essere decisi, veloci, ma nello stesso tempo ordinati e orientati. Propongo uno schema di gioco:
Innovazione istituzionale: qui non servono leggi nuove a meno che non siano abrogative o non siano tese a semplificare radicalmente l’enorme mole degli adempimenti che, legge dopo legge e emergenza dopo emergenza, si sono stratificate su ogni amministrazione (vi propongo di rileggervi “La parabola del cotechino” scritto dal mio amico Mauro Bonaretti, ora Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, a cui vanno i miei più affettuosi auguri di buon lavoro). Ma qualcosa si può e si deve fare subito: serve investire soldi, cervelli e energie per accompagnare le riforme che sono state già fatte o sono in fase di completamento. Pensare che si possa introdurre ad esempio le città metropolitane, affidare un nuovo ruolo alle province sopravvissute, promuovere effettivamente efficienti unioni di comuni senza accompagnare queste riforme epocali con un’assistenza continua e puntuale, vuol dire cadere in quella “illusione del legislatore” che già tante volte ci ha giocato brutti scherzi.
Innovazione organizzativa: anche qui di leggi ce ne sono anche troppe. C’è già la licenziabilità dei dirigenti, ci sono già gli incarichi dirigenziali a termine e se, come ha detto Renzi al Senato, spesso si sente dire che i Ministri passano e i dirigenti restano è solo perché le norme che ci sono non sono applicate. C’è una buona legge, il d.lgs 150/2010, che ha già tutti gli strumenti della valutazione sia organizzativa (che è la principale) sia individuale (che non può comunque essere trascurata) e che, forse con qualche maquillage, fa assolutamente al caso nostro se veramente vogliamo far sì che la valutazione sia una cosa seria. Certo poi ci sono state le degenerazioni: le direttive politiche assenti, i giudizi dati dagli stessi giudicati, gli obiettivi scritti da chi li doveva ricevere, ecc. ma si tratta appunto di malfunzionamenti che anche qui derivano solo da una scarsa volontà reale di attuazione delle norme, non da una loro carenza da supplire con nuove leggi. Non legiferiamo spinti dalla “necrofilia amministrativa”, facciamo lavorare chi lavora e giudichiamolo dai risultati, evitiamo di normare dove non serve e confermiamo, assistendola, la autonoma responsabilità dei dirigenti. Magari scegliendoli per merito, ma questo non si può imporre per legge, ma solo profondamente riformando gli strumenti di accesso alla dirigenza (vedi quel che scrivevo nell’editoriale sulla “Strategia dell’ignoranza”).
Infine innovazione tecnologica: la digitalizzazione della PA è una storia infinita che mi ha visto testimone per più di venticinque anni. Qui CAD nuovi o vecchi, leggi o grida manzoniane lasciano il tempo che trovano. Servono meno leggi ma più manuali, più regolamenti attuativi, più incentivi a chi fa bene e meno soldi a chi fa male. Possiamo partire tranquillamente dalle priorità di Caio o da altre. L’importante è che si arrivi ad una sola fondamentale scelta: la carta non vale più, il digitale è l’unica opzione di validità per i procedimenti. Da subito. Lo switch-off è già possibile, gli alibi non servono che a fare confusione.
Nel frattempo facciamo in fretta a portare a termine la gare per il nuovo Sistema Pubblico di Connettività, rendiamo prassi quotidiana i nuovi strumenti di procurement, usiamo come cavalli di Troia le innovazioni già alle porte come la fatturazione elettronica, aboliamo dal nostro vocabolario la parola “proroga”.
Insomma ci sono tante cose a cui por mano subito, anche senza aspettare aprile, basta che siamo convinti che poi vanno seguite, curate, manutenute e che questo ci porterà in futuro tanti risparmi e un incremento importante nella qualità dei servizi resi ai cittadini e alle imprese, ma che oggi ci chiede mirati, ma significativi investimenti. Non farli costerebbe molto di più, ma farli comporta scelte coraggiose e non scontate.
Ciò detto, visto che i segnali servono, per far capire che si cambia radicalmente il passo cominciamo non dalle leggi, ma dalle azioni. Propongo quindi tre azioni-bandiera che sarebbero segni fortissimi di cambiamento, ma che non chiedono leggi né nuovi adempimenti:
1. Programmare concorsi annuali, con tempi certi e programmati per i prossimi cinque anni, per portare dentro la PA, nei limiti già fissati per legge, l’eccellenza tra i giovani laureati italiani. Scongeliamo così la PA e ridiamo orgoglio, con una grande campagna di comunicazione, al lavoro pubblico, non come un ripiego che punta alla sicurezza, ma come il lavoro dei migliori che si impegnano per il bene comune.
2. Fare propria la promessa di Renzi al Senato e far sì che ogni centesimo speso dalla pubblica amministrazione sia visibile on line da parte di tutti. E’ il tema degli Open data e della trasparenza vera, quella dinamica, che dà conto del rapporto tra i costi e i benefici.
3. Cambiare completamente i criteri di scelta per le cariche in scadenza nelle società pubbliche o partecipate e ridurre gli stipendi di questi manager, seguendo la regola olivettiana ossia in modo che non superino mai di più di venti volte quelli degli ultimi; nello stesso tempo fare entrare un po’ di aria nuova negli Uffici di diretta collaborazione del Governo, privilegiando la managerialità e la capacità di disegnare le politiche piuttosto che l’appartenenza a una parte politica o a una categoria professionale.