Sblocco del turnover: “chi”, “come” ma anche “dove”
L’annuncio dello sblocco del turnover al 100% nella pubblica amministrazione è stato accolto con grande interesse da tutti gli osservatori. Ma le assunzioni riguarderanno una miriade di pubbliche amministrazioni, ovvero settori caratterizzati da tassi di obsolescenza istituzionale, invecchiamento degli addetti, maturità organizzativa, necessità operative, culture interne diversissime tra loro. Per questo oltre che sul “chi” assumere e sul “come” farlo, bisogna riflettere anche sul “dove” andrà ad incidere il rinnovamento del personale
19 Dicembre 2019
Giovanni Vetritto
Direttore generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri
Premessa
di Carlo Mochi Sismondi, Presidente di FPA
Premetto un breve commento introduttivo a questo articolo non solo perché Giovanni Vetritto è un caro amico, ma anche perché il tema, che era stato già trattato da Davide D’Amico in un’interessante intervista, è di grande attualità.
Concordo con l’autore che è necessario che si ponga la massima attenzione al “dove”, all’ambiente di lavoro e ai modelli organizzativi delle amministrazioni che dovranno accogliere i nuovi assunti. Il rischio di mettere vino nuovo in botti vecchie, perdendo l’uno e le altre, è infatti molto alto.
Concordo meno invece su un’analisi così negativa di tutti i comparti e di tutte le tipologie di amministrazioni. Non che io non ne veda i grossi limiti e le paludi in cui spesso di impantanano, ma mi pare necessario distinguerle in una pluralità che è spesso ricchezza e anche guardarsi indietro. Devo dire che nei miei trent’anni di osservazione attenta ho visto anche importanti progressi.
Quella che è cambiata maggiormente è la percezione del ruolo dell’amministrazione nello sviluppo della società. Trent’anni fa il fine introiettato dai dirigenti e dipendenti della PA era produrre provvedimenti e gestire documenti amministrativi con correttezza ed imparzialità. Oggi invece, dopo trent’anni la parte migliore dell’amministrazione ha chiaro che il proprio fine non è tanto licenziare provvedimenti, anche se questi sono gli strumenti che ha a disposizione, quanto piuttosto accrescere la qualità della vita dei cittadini, delle imprese, delle comunità locali. Ed ha anche chiaro che non ci riuscirà mai se non insieme a tutte le forze vitali della società. L’attenzione si è spostata quindi sull’impatto dell’azione pubblica e questo ha costretto le amministrazioni pubbliche a (ri)pensarsi all’interno di una rete di relazioni e di collaborazioni.
Ci riescono sempre? Certo che no. Hanno modelli organizzativi adeguati? La risposta anche qui è spesso negativa. E allora? Allora dobbiamo smettere di guardare il dito e puntare alla luna: solo l’individuazione di chiari e forti obiettivi di policy, relativi alla qualità di vita dei cittadini, può realizzare una mobilitazione attorno a leadership e comunità di cambiamento, capace di superare gli ostacoli che l’ossimoro del caos, non calmo come in Moretti, ma rigido, quasi congelato della PA ci mette davanti. Quindi, come è chiaro, torno qui a concordare con Giovanni Vetritto: è ora di ripensare ad amministrazioni organizzate per obiettivi strategici e fortemente motivanti. Gli unici in grado di far dire ai nuovi assunti che è un privilegio ed un onore servire la comunità nazionale.
Sblocco del turnover: “chi”, “come” ma anche “dove”
di Giovanni Vetritto, Direttore generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri
L’annuncio del ministro della Funzione Pubblica Dadone in merito allo sblocco del turnover al 100% nella pubblica amministrazione, dopo decenni di blocchi e sostituzioni parziali, che hanno pesantemente depauperato le capacità operative del settore pubblico, è stato accolto con grande interesse da tutti gli osservatori. L’Italia ha oggi il più basso tasso di dipendenti pubblici tra i Paesi più sviluppati, sia per numero di cittadini serviti da ciascun dipendente sia in percentuale della forza lavoro attiva. Quindi una ripopolazione degli uffici è assolutamente indispensabile in linea teorica.
Sblocco del turnover e valore pubblico
Altrettanto unanime è il caveat degli addetti ai lavori sul “chi” e sul “come” assumere per rimpiazzare una coorte storicamente cospicua di dipendenti in procinto di andare in pensione. È infatti banale osservare come non basti rimpinguare gli organici per produrre automaticamente “valore pubblico” per il cittadino.
Così si susseguono i buoni consigli in merito alla necessità di programmare le assunzioni in base a skill matrix ragionevoli e aggiornate ai nuovi modi di lavorare; le preoccupazioni sulla vetustà dei metodi di selezione; i richiami a tenere conto della pesante demotivazione che regna sovrana negli uffici pubblici; gli avvertimenti a non sprecare una occasione storica per spostare decisamente gli equilibri tra professionalità giuridico- amministrative e professionalità tecniche (e oggi anche tecnologiche), nei decenni marginalizzate e perfino cancellate dal devastante juristenmonopol.
Ma “dove” andremo ad assumere personale?
Per non essere accusati di “benaltrismo” occorre precisare subito che tutti questi elementi, ricorrenti nelle interviste e sui social, sono effettivamente cruciali; e tutti hanno la caratteristica di essere validi “in trasversale” rispetto a una politica assunzionale che, però, occorre sempre rammentarlo, riguarderà non una Pubblica Amministrazione astratta, al singolare, ma una miriade di pubbliche amministrazioni, al plurale e con la minuscola, ovvero settori caratterizzati da tassi di obsolescenza istituzionale, invecchiamento degli addetti, maturità organizzativa, necessità operative, culture interne diversissime tra loro.
E allora sia consentito aggiungere a quelle relative al “chi” e al “come” delle assunzioni anche una riflessione sul “dove”, articolando minimamente il ragionamento senza pretesa di esaurirlo.
Le amministrazioni centrali
Innanzitutto, vi è il mondo antico (e ormai, come si conviene, “piccolo”) dei ministeri e della presidenza del consiglio. Un mondo ancora attaccato pervicacemente a metodi e culture ottocenteschi, che già negli anni ’20 del ‘900 i più arditi riformatori (Francesco Saverio Nitti su tutti) davano ormai per perso, considerandolo una legacy irriformabile del sistema.
Le “amministrazioni centrali” soffrono di una crisi profondissima; articolate secondo un modello divisionale veterofordista; in mano ai giuristi e private dei saperi tecnici; traumaticamente staccate dal vertice politico dalle riforme degli anni ’90 (al punto che Ministri, perfino junior “senza portafogli” nella Presidenza del Consiglio, esauriscono il loro incarico senza aver mai parlato con un direttore generale); ostili a qualunque innovazione organizzativa e tecnologica (rinforzati in questa ostilità dai guardiani della Ragioneria Generale del MEF, vera centrale di sabotaggio di qualunque spinta di modernizzazione); ormai poco più di cinghie di trasmissione verso luoghi di potere reale in forma societaria (Invitalia, Formez, Sogesid, Studiare Sviluppo… e l’elenco potrebbe continuare per una buona paginata); oberate di una marea di adempimenti sovrabbondanti e complessi, proprio nel mentre il loro ruolo nelle decisioni pubbliche diventa pressoché irrilevante.
Conservare questo settore tradizionale senza riformarlo non è una necessità del destino; nel quarantesimo anniversario del “Rapporto Giannini” basta ricordare come quel genio del diritto amministrativo (e d’altro) avesse proposto già alla Costituente (purtroppo inascoltato) un modello di amministrazione centrale “per servizi”, all’anglosassone, fatta di dipartimenti “di scopo” ad alto tasso di conoscenza e tecnicità, da aggregare in maniera flessibile nelle deleghe dei singoli ministri a ogni nuovo esecutivo.
Qui il verdetto ha da essere perfino truce: o si intende mettere mano a questo universo immobile, o non ci saranno programmazioni, criteri di selezione, rinnovamento dei profili professionali che possano risvegliare il corpaccione dal coma vigile in cui vegeta.
Enti e “Amministrazioni parallele”
A fianco di questo settore vi è il mondo, forse il più avanzato, degli Enti e delle “Amministrazioni parallele” di origine giolittiana e fascista; un universo nel quale si è avuto negli ultimi decenni quasi tutto il meglio dei fenomeni di modernizzazione (anche, ma non solo, tecnologica), a partire dall’esempio ormai perso nella memoria delle prime rivoluzioni portate in INPS da un certo Gianni Bilia.
Poiché, però, in questo stesso universo si trovano irresolutezze operative e cascami giuridici insopportabili e inefficienti, a monte di una programmazione delle risorse umane serve una seria riflessione organizzativa ente per ente, realtà per realtà, come avvenne nel 1975 con la legge sugli “enti inutili”; riflessione che, però, andrebbe condotta (assieme a quella sulle spa in mano pubblica) con una alta dirigenza ministeriale responsabile e rimessa in grado di decidere; il che ci riporta al punto precedente.
Le Regioni
Vi è poi il settore delle Regioni; un settore sul quale ha di recente fatto luce un perspicuo studio organizzativo, basato su criteri di rating ispirati agli indicatori ESG accreditati ormai da anni.
Un mondo non governato, né dal centro né da funzionali dinamiche di coopetition per il bene del Paese; e sul quale, anzi, pende al contrario la minaccia della disarticolazione individuale implicata dalla “secessione dei ricchi” (detta federalismo differenziato). Un universo molto diverso da quello ministeriale, spesso con dotazioni di personale molto superiori ai Ministeri, nel quale spiccano per prestazioni (e non sorprende se non i cantori di un thatcherismo fuori tempo) proprio le regioni con più dipendenti (la Lombardia, per fare un esempio, che ha più dipendenti del Lazio nonostante quest’ultimo ospiti tutte le funzioni centrali; vedere il volume succitato). Un universo che non ha mai espresso un vero modello, a cavallo tra l’ipotesi costituzionale, che vuole “enti di programmazione”, e casi anche non disprezzabili di operatività spicciola, che implica tutt’altra provvista di intelligenze e professionalità.
Anche in questo caso, però, con “Governatori” che amministrano meno cittadini del Presidente di un Municipio di grande città, pensare che le assunzioni possano avvenire senza alcuna previa riconsiderazione organizzativa e funzionale, e aspettarsi valore pubblico, è pura follia.
Comuni e Province
Vi è poi la frammentazione degli enti locali: 8000 Comuni quasi tutti impotenti e antistorici (ancora Giannini: “conurbazioni” il cui livello operativo “semplicemente non esiste” e “comuni- polvere” che sono “ridicolaggini”), 105 Province definanziate da anni e mai più ripensate.
Tutti i Paesi sviluppati con i quali siamo in concorrenza sistemica hanno superato la frammentazione che li caratterizzava storicamente: dai kreis tedeschi alle communautée nouvelle francesi. Solo noi ci ostiniamo a perpetrare una geografia pregaribaldina, che esiste solo nella autoreferenzialità dei potentati locali (ai quali bene si attaglia la condanna come “estrattivi” di Daron Acemoglu) e nella mentalità euclidea dei giuristi.
Anche qui, credere che il neoassunto debba prendere servizio in un singolo “Comune”, a dispetto di ogni evidenza funzionale empirica, invece che in sensate aggregazioni di minima significanza scalare, può essere praticabile, ma a condizione di non aspettarsi alcun valore pubblico.
L’esemplificazione potrebbe andare avanti; dal mondo delle authority (vera riserva indiana del malaffare politico- istituzionale, in cui prosperano i “mandarini” di pannunziana memoria) a quello della malfatta “agencification” all’italiana, il sovraccarico istituzionale e la assenza di cultura organizzativa comportano la necessità di affiancare al “chi” e al “come” tanti decisivi “dove” del rinnovamento del personale. Con queste note impressionistiche non si pretende di aver esaurito il tema, ma almeno di averne suggerito l’importanza.