Smart working: perché migliora la vita dell’organizzazione (oltre che dei lavoratori)

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Migliorare la quantità e la qualità dei servizi offerti, razionalizzare gli spazi e le dotazioni tecnologiche, sperimentare un diverso modello organizzativo e favorire la conciliazione vita-lavoro. Questi i punti centrali del percorso di smart working avviato dalla Regione Emilia-Romagna, che vede attualmente coinvolti 146 dipendenti

20 Febbraio 2019

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Michela Stentella

Content Manager FPA

Photo by Venveo on Unsplash - https://unsplash.com/photos/qY9zgRqmNtA

Una grande opportunità per sperimentare un diverso modello organizzativo e un diverso modo di lavorare, che insiste su due variabili importanti quali il tempo e lo spazio fisico: ecco la principale definizione di smart working che emerge dal percorso avviato, a partire dal giugno dello scorso anno, dalla Regione Emilia-Romagna. Un percorso costruito in collaborazione con le organizzazioni sindacali, che ha visto una prima fase di sperimentazione durata sei mesi con 81 dipendenti coinvolti, ed è poi entrato in una seconda fase in cui la platea si è ampliata, arrivando a 146 dipendenti. Attualmente si stanno monitorando e analizzando i primi riscontri e risultati ottenuti.

Lo smart working avviato dalla Regione Emilia-Romagna si inserisce all’interno di un più ampio processo di trasformazione digitale e organizzativa e si candida a diventare una delle leve in grado di rendere l’organizzazione ancora più dinamica, flessibile ed efficiente ma soprattutto capace di rispondere alle esigenze del territorio, come ci spiega Stefania Sparaco, che lavora nella Direzione Generale Risorse, Europa, Innovazione e Istituzioni che sta guidando la sperimentazione ed è project manager del Progetto Interregionale VeLA (finanziato sul PON Governance Capacità Istituzionale 2014-2020), sempre legato allo smart working: “Gli obiettivi che l’Amministrazione si è data, con una delibera di Giunta, erano chiari: aumentare la produttività, quindi migliorare la quantità e la qualità dei servizi offerti; razionalizzare gli spazi e le dotazioni tecnologiche; migliorare l’organizzazione del lavoro e favorire la conciliazione vita-lavoro. Come si può notare, tre di questi obiettivi hanno una forte componente organizzativa, mentre l’elemento conciliativo è un esito dell’introduzione dello smart working, non il driver primario che ci ha guidato. Del resto, noi veniamo già da un’esperienza pluriennale di forme di conciliazione, basti pensare che al momento abbiamo circa 500 persone in telelavoro, oltre a diverse altre forme di flessibilità oraria. In materia di smart working, quindi, ci siamo fatti guidare da valutazioni legate al miglioramento dell’organizzazione. Per esempio, le persone da inserire nella sperimentazione sono state scelte a partire da un ampio coinvolgimento dei dirigenti, individuando gruppi di persone che da queste forme di flessibilità potevano trarre benefici per la propria attività e, quindi, portare benefici all’organizzazione. La valutazione è stata fatta senza preclusioni di sorta (di livello, figura e profilo professionale) e nell’accordo sottoscritto col lavoratore vengono elencate le specifiche attività che possono essere svolte in forma agile. Questa apertura ci ha consentito di testare diversi tipi di attività e i benefici che ne possiamo trarre e, al tempo stesso, di valorizzare meglio il contributo che ciascuno dà all’organizzazione. Anche se per porzioni della propria attività, tutti i collaboratori coinvolti hanno sentito di poter essere, almeno un po’, smart!”.

Al momento si stanno analizzando in maniera puntuale le risultanze della sperimentazione, attraverso indicatori di controllo di gestione e indicatori di carattere qualitativo, con interviste sia ai dirigenti che agli smart worker. L’obiettivo è capire cosa è migliorabile e cosa invece è già sufficientemente rodato, per far poi diventare lo smart working una misura organizzativa, ampliare il numero di persone coinvolte e rafforzare il legame tra questa misura e le esigenze dell’organizzazione.

Cosa sta emergendo da questa analisi? “Dalle prime rilevazioni – commenta Sparaco – abbiamo notato che non c’è solo un tema di quantità di servizi e di attività che si riescono a portare a termine più rapidamente, ma emerge anche il tema della qualità del lavoro. In molti hanno evidenziato per esempio, la possibilità di concentrarsi meglio e di produrre output (relazioni, pareri, contributi a progetti, etc.) di qualità maggiore. Abbiamo inoltre rilevato – in linea con altre esperienze simili, anche in ambito privato – l’impatto positivo che lo smart working sta avendo sulla conciliazione lavoro/vita privata: una conferma di come la tecnologia, se correttamente instradata in un processo di cambiamento organizzativo e culturale, permette di recuperare dei margini di flessibilità (anche nella dimensione privata) che modelli precedenti di organizzazione del lavoro – non solo in ambito PA – avevano enormemente ridotto, creando ulteriore valore per il singolo e la collettività”.

“Un aspetto su cui vorremmo lavorare – aggiunge poi – è il salto culturale perché, per quanto la sperimentazione stia dando esiti positivi e soddisfacenti e si colga la soddisfazione di chi vi partecipa, coinvolge un sottoinsieme ancora piccolo dei lavoratori. Il passaggio al lavoro per obiettivi, che prevede forme di controllo non sulla presenza ma sui risultati, non è semplice né per chi lavora né per chi esercita il controllo. Anche se, in alcuni casi, si tratta in realtà di dare forma, valorizzare e strutturare un approccio che molti lavoratori già hanno e che rappresenta la vera forza della nostra organizzazione. Dove invece questo non è presente, contiamo su una contaminazione positiva, per questo spingiamo a mettere in modalità agile gruppi di persone che già lavorano insieme. Lo smart working, infatti, non deve consolidarsi in isole all’interno dell’organizzazione, anche se ovviamente ci saranno settori su cui avrà un peso maggiore. Del resto, una volta che si entra nella logica di lavorare in modalità smart, questa logica si usa sempre, anche quando si è presenti in ufficio, perché si modifica il modo di approcciarsi al lavoro”.

Ma cosa si pensa di fare per favorire la messa a regime dello smart working e passare a un utilizzo su larga scala? “Gli attuali Smart Worker e i loro dirigenti ci stanno aiutando molto nel costruire questa nuova modalità di lavoro, testando i vari strumenti a disposizione e dando consigli e suggerimenti per migliorare. Si è costruita una community di persone che collabora con entusiasmo e disponibilità, per crescere come organizzazione. Le cose a cui faremo attenzione nel passaggio a regime – conclude Sparaco – saranno oltre al tema organizzativo e culturale, anche quello degli spazi fisici, quindi rivisitare i luoghi di lavoro in una logica di coworking e di progettazione innovativa perché riteniamo che la variabile spazio abbia una fortissima influenza su come le persone lavorano. Centrale, infine, il tema del diritto alla disconnessione, perché non avere vincoli di tempo e spazio non deve trasformarsi in un ‘lavorare sempre’. Su quest’ultimo punto, al di là di quanto già previsto dalla normativa, vorremmo lavorare anche attraverso la formazione e il rafforzamento del passaggio culturale sia lato dirigente che lato dipendente. Un elemento importante da monitorare e su cui agire, perché è uno degli aspetti meno approfonditi e che non si può normare, funziona solo se tutti hanno la stessa sensibilità culturale all’interno dell’organizzazione. Infine, vorremmo lavorare sulla costruzione di una rete sia con altre amministrazioni nazionali (già oggi siamo in rete con le 8 amministrazioni partner del progetto VeLA, ma in futuro sarebbe interessante ampliare questo perimetro) sia con gli enti locali del territorio: lo scambio di buone pratiche e il confronto su questi temi così impattanti nella vita delle organizzazioni sono il vero motore che può farci crescere come insieme di Pubblica Amministrazione”.

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