Stefano Rolando, Docente di Teoria e Tecniche della Comunicazione Pubblica Università IULM – Milano

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Fare rete e riuscire a creare un network che si proponga come laboratorio di ritrovo e di confronto tra i protagonisti del cambiamento e dell’innovazione presuppone, però, anche lo sradicamento di alcuni atteggiamenti ancora un po’ troppo radicati nella cultura del nostro paese.

7 Gennaio 2008

Articolo FPA

Fare rete e riuscire a creare un network che si proponga come laboratorio di ritrovo e di confronto tra i protagonisti del cambiamento e dell’innovazione presuppone, però, anche lo sradicamento di alcuni atteggiamenti ancora un po’ troppo radicati nella cultura del nostro paese. Stefano Rolando – grande esperto di comunicazione ed acuto osservatore di processi di cambiamento della PA e dintorni – ci aiuta a comprendere in che modo oggi la pubblica amministrazione possa divenire portatrice di innovazione, qual è (o quale dovrebbe essere) il ruolo della PA nel governo di processi di innovazione più ampi, ad esempio a livello territoriale, e soprattutto in che modo si può comunicare una cosa così "immateriale" come l’innovazione. 

Stefano Rolando è professore di ruolo nel raggruppamento di Economia e gestione delle imprese e docente di Teoria e tecniche della comunicazione pubblica all’Università IULM di Milano. Nella stessa università è anche segretario generale della Fondazione di ricerca applicata e di formazione continua. È tra i pionieri in Italia e in Europa della comunicazione pubblica. È stato direttore generale dell’informazione e dell’editoria a Palazzo Chigi dal 1985 al 1995, ha fondato nel 1990 la Associazione italiana della comunicazione pubblica e nel 1994 il Salone della comunicazione pubblica a Bologna, ha creato nel 1986 il coordinamento dei responsabili della comunicazione istituzionale tra i governi europei e le istituzioni comunitarie, nel 1990 ha formulato il profilo disciplinare della comunicazione pubblica nella commissione ministeriale che ha istituito i corsi di laurea di Scienze della Comunicazione. È fondatore e direttore dal 1998 di Rivista italiana di comunicazione pubblica. È oggi anche consigliere economico del Ministro per i Beni e le attività culturali ed è presidente del Consiglio scientifico di Forum P.A.

Forum PA da quest’anno cambia focus: da rassegna dei servizi al cittadino a mostra dell’innovazione nella PA e nei sistemi territoriali. In che modo oggi la pubblica amministrazione è portatrice di innovazione e qual è (o quale dovrebbe essere) il ruolo della PA nel governo di processi di innovazione più ampi, ad esempio a livello territoriale?
Se è vero che l’innovazione di cui parliamo ha, insieme, un risvolto tecnologico e un risvolto sociale, per esprimere il fatto che il “nuovo” va assimilato e utilizzato su larga scala, ebbene la dinamica pubblico-privato che in generale la fa scaturire (quella relazione collaborativa che una volta si chiamava “sistema-Paese”), non si può reggere su due sole gambe, quella della politica e quella dell’impresa. Anche se sono due gambe motrici, in qualche modo indispensabili, perché esprimono volontà e progetto. Lo si è visto in tante occasioni anche drammatiche della storia italiana. Essa ha bisogno anche di altre due gambe, quella delle filiere amministrative delle istituzioni e quella del “cittadino organizzato” (che potremmo chiamare anche del sistema associativo, che presidia valori e diritti). Le amministrazioni svolgono l’indispensabile ruolo di controllo e garanzia in tutto il ciclo applicativo delle leggi. Perché nell’innovazione c’è sviluppo e nello sviluppo c’è concorrenza. Senza controllo e garanzia né i cittadini né l’imprese stanno tendenzialmente ai patti. Mentre per avere trasparenza e regole sia i cittadini che le imprese chiamano le istituzioni. Magari le criticano ma alla fine le debbono rispettare per ottenere efficacia e funzionalità. Il ragionamento sarebbe assai lungo, ma qui sta il cuore del problema. Quando dico il “lungo ciclo applicativo delle leggi” ci colloco tante cose. Laboratorio di dialogo, verifica di attuazione, partecipazione attiva alla progettualità normativa, ricerca. E naturalmente anche comunicazione e capacità di rappresentazione dei processi di legalità e sviluppo.

Professore, FORUM PA è una manifestazione importante e che riscuote ottimi risultati. Ma come sta cambiando il prodotto “Fiera” nella società della conoscenza? E, in definitiva, servono ancora la fiere?
Una fiera è una superficie di racconto e di incontro. Antica come il mondo. Strumento di scambio centrale nella storia commerciale del mondo. Un luogo per mostrare processi e prodotti. Per selezionare ciò che di meglio si fa. Per accettare un po’ di competizione con altri che migliorano sia processi che prodotti. Per avere una porta aperta rispetto ai palazzi abituali in cui le porte – per tante ragioni, logistiche e di sicurezza – debbono stare più chiuse, rendendo facile un contatto e un dialogo. Diciamo da tempo che per chi non ha “storie da raccontare” e per chi non “apre porte a chi ha voglia di ascoltarle” c’è ancora la vecchia e condannata posizione del “segreto e del silenzio”. Quella a cui si è abbarbicata l’amministrazione italiana – ma non sempre e non tutta – prima della legge 241 del 1990. In quasi vent’anni di laboratorio di questo racconto e di questa apertura si sono affinate le tecniche e si sono specializzate le modalità. Ma le fiere sono sempre state uno stimolo a fare selezione e a indurre una riflessione sintetica su come siamo in relazione agli altri e anche in relazione a noi stessi. Rappresentarsi in fiera per i soggetti complessi è un po’come vestirsi nei giorni di festa per le persone. A seconda del messaggio che vogliamo dare scegliamo un vestito per semplificare ed evidenziare quel messaggio. Sia esso di semplicità o di importanza, alla buona o con più formalità.

Quindi lo strumento “Fiera” è tutt’ora una opportunità di comunicazione utile e – sotto alcuni aspetti – necessaria. Ma, da parte di chi espone in una manifestazione fieristica, forse occorre un approccio nuovo. Quale dovrebbe essere il progetto comunicativo di chi espone? Quali obiettivi ci si dovrebbe porre?
La partecipazione ad una fiera è oggi quasi sempre distinta in tre segmenti. Il primo come momento di ricapitolazione interna del posizionamento del nostro brand, sia esso pubblico o privato, istituzionale e di impresa. Con qualcuno che si sforza di fare sintesi e di fare convergere soprattutto i capi, i vertici, su quella sintesi per svolgere delle scelte di corredo. Quali sono le connotazioni che vogliamo dare al presidio del nostro brand. Su cosa puntiamo. È questo un essenziale esercizio, per fortuna provocato dall’esigenza di “scendere in piazza”. Il secondo momento è rappresentato dalla capacità (che può essere oggi aiutata anche dall’esterno, agevolata da organizzazioni pensanti e creative) di dare visualità a questa scelta. Una visualità estetica rappresentata da ciò che la comunicazione integrata consente. Uno spazio arredato, anche semplicemente a volte, ma con testimonianze di verità. Dal colore ai contenuti di uno schermo, dalle scritte ai prodotti. Il terzo momento è il complemento delle “parole”, dei discorsi, degli interventi che trovano posto nei forum che affiancano abitualmente le fiere e che consentono di dare spessore alla credibilità delle nostre funzioni e di ampliare una reputazione. Una reputazione che ha bisogno anche di essere “indossata” da persone e dalle loro responsabilità. Un progetto, dunque, è la sintesi di questi tre momenti. Per un’istituzione che espone suggerirei di cercare anche di non lodarsi da sola. Ma di trovare nella storia dei suoi rapporti con i cittadini e con le imprese (ascolto, ricerca, customer satisfaction, eccetera) elementi di comprovazione. Sono essi l’utenza che ha il diritto di dire se nel lavoro e nei servizi resi da un’amministrazione sono correttamente riposte le tasse pagate.

FORUM PA è una manifestazione che parla di una cosa intangibile come l’innovazione. In che modo si può comunicarla in uno stand, in una fiera?
La comunicazione oggi si chiama integrata perché tiene conto di tanti mezzi e tante superfici che possono rendere una funzione, un prodotto, un servizio o lo stesso valore simbolico di una marca con modalità distinte di racconto che si riferiscono ad altrettanti distinti destinatari. Ciò che per qualcuno è chiaro con le parole scritte per altri ha bisogno di essere reso per immagini. Ciò che per alcuni ha bisogno della carta stampata, per altri trova una maggiore credibilità grazie al modo con cui la multimedialità risulta interrogabile (e quindi meno “rifilata”) nel patrimonio a cui si può attingere in rete. I professionisti della comunicazione esistono apposta per aiutare a parlare con chiarezza e semplicità di cose di per sé meno chiare e meno semplici. È presumibile che se mettiamo al centro la parola “innovazione” non potremo limitare la nostra comunicazione ad un fiasco di vino o ai prodotti tipici della nostra terra (ho in mente una pur bella e recente fiera sulle qualità italiane che attirava proprio per questo genere di contenuto). Anche se non è detto che “innovazione” sia solo rappresentata da tecnologie e computer. Innovazione è fondamentalmente processo, in cui il servizio reso ha valore aggiunto, in cui la velocità di adempimento cresce e il costo di adempimento decresce. Partiamo dal significato vero delle parole, dunque, e decliniamo da lì un insieme di scenari di rappresentazione dove c’è posto per il computer ma al limite anche per il fiasco di vino.

Quindi anche le amministrazioni devono ripensare la partecipazione espositiva. In che modo sta cambiando la comunicazione istituzionale nelle situazioni di fiera?
In realtà sta cambiando la comunicazione istituzionale tout court. Non solo in fiera. Venti anni fa per far partire un movimento, una vera e propria rivoluzione copernicana, fu necessario spingere il ruolo del “pubblico” come nettamente distinto e in qualche modo separato dalla comunicazione di impresa, che conosceva una lunga storia e una lunga esperienza. Oggi noi sappiamo che la parola “pubblico” non significa più solo lo Stato o gli enti locali. È una dimensione che coinvolge piuttosto la “pubblica utilità” in cui vi è posto per tanti soggetti. A cominciare si intende dalle istituzioni che hanno superato la loro prima stagione di pura comunicazione anagrafica (chi sono, dove sto, cosa faccio) e forse anche la seconda stagione, quella regolata dalla legge 150 in un presidio front-line al cittadino e un presidio ai media. La terza stagione – in cui le istituzioni scendono nello stesso territorio (quello della salute, quello dell’ambiente, quello dei trasporti, quello della cultura, quello dell’educazione, eccetera) con imprese, associazioni, organizzazioni diverse – è così quella in cui ogni soggetto svolge un ruolo e una parte all’interno di patti per lo sviluppo e per la solidarietà. Ognuno ha la sua storia da raccontare. L’insieme di quelle storie – settore per settore – aiuta a vivere, a lavorare, a trovarsi nelle proprie appartenenze e nei propri ruoli. Anche l’appartenenza territoriale è frutto di una comunicazione per cui non basta solo la voce delle pubbliche amministrazioni. Ben inteso vi è pur sempre un ruolo, a monte, specifico e proprio che è quello di chi ha il dovere di spiegare le leggi e di facilitare l’accesso a servizi e strutture. Ma in questo “accesso” c’è poi un passaggio più maturo e complesso di uso e di appartenenza in cui bisogna imparare a parlare con altri. È questo il teatro della pubblica utilità. Direi che sembra fatto apposta per la messa in scena del momento fieristico ed espositivo. 

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