EDITORIALE
Sul tavolo del nuovo Ministro per la PA: cinque azioni con al centro persone e competenze
Oggi sul tavolo del Ministro Brunetta, tornato nel ruolo in cui era circa dieci anni fa, c’è una grande opportunità, ma anche una grande responsabilità: la qualità dell’azione pubblica e la capacità delle amministrazioni sono, infatti, condizioni necessarie per l’utilizzo dei fondi di Next generation EU. Sono cinque, a mio parere, le azioni su cui lavorare per il necessario rafforzamento della PA e delle sue persone
15 Febbraio 2021
Carlo Mochi Sismondi
Presidente FPA
Renato Brunetta è stato il Ministro della Pubblica Amministrazione e dell’Innovazione nel quarto Governo Berlusconi. In quella occasione fu l’autore di un’ampia riforma condensata nel decreto legislativo 150/2009, per cui il giudizio deve necessariamente rimanere sospeso, in quanto mai completamente attuata.
Ora, dopo quasi dieci anni dalla fine di quel Governo, sul tavolo del Ministro Brunetta, tornato nel ruolo di allora, c’è una grande opportunità, ma anche una grande responsabilità: la qualità dell’azione pubblica e la capacità delle amministrazioni sono condizioni necessarie per l’utilizzo dei fondi di Next generation EU, ma, come abbiamo più volte detto (anche nell’appello del Forum Disuguaglianze Diversità, di Movimenta e di FPA), la PA è oggi fragile, molto più fragile di quanto fosse dieci anni fa. La qualità della PA torna quindi centrale nell’agenda politica, ma nello stesso tempo è necessaria un’azione di “rigenerazione” che la rafforzi.
Non riporto qui i numeri che testimoniano questa fragilità, abbiamo appena presentato il nostro rapporto annuale in cui queste cifre e questo stato sono ampiamente illustrati, preferisco spiegare meglio quel che voglio dire con cinque azioni, cinque verbi che sostanziano, a mio parere, il necessario rafforzamento della PA e delle sue persone.
Assumere presto e bene
Vuol dire sfruttare l’opportunità dello sblocco del turnover per cambiare il volto delle amministrazioni con nuove immissioni di giovani preparati, di nuovi profili, di donne ai vertici. Oggi abbiamo meno di 5 giovani inferiori a trent’anni ogni mille impiegati pubblici[1], nelle PA centrali l’età media è di quasi 55 anni, il 24 % ha più di 60 anni e già quest’anno probabilmente i pensionati pubblici supereranno gli impiegati: non possiamo che riequilibrare la composizione anagrafica della PA e con essa il potere stesso di cambiarla. Assumere giovani e valorizzare le donne nella PA quindi. È necessario ed urgente, ma altrettanto necessario è rendersi conto che con queste assunzioni stiamo disegnando l’amministrazione per i prossimi decenni e stiamo, finalmente, dando la possibilità a una leva di giovani di dare un contributo forte al Paese. Non possiamo permetterci di sbagliare. Occorre quindi, banalmente, partire dalle cose che è necessario fare e poi definire chi le deve fare. Questo vuol dire indire velocemente concorsi pensati e gestiti in forma completamente diversa rispetto ad ora; concorsi che non devono servire semplicemente a sostituire i lavoratori in uscita, ma a trasformare, sulla base delle missioni strategiche del Piano di Ripresa e Resilienza, la composizione sia qualitativa sia quantitativa del personale che ora è necessario. L’ultima cosa che serve è riprodurre l’esistente.
Formare una nuova e moderna capacità amministrativa
Vuol dire moltiplicare l’investimento in formazione per riportarlo a quell’1% del monte salariale che era stato promesso dal Ministro Frattini nel 2001 (vent’anni fa!). Formare quindi il personale ai nuovi compiti delle amministrazioni, fornire le necessarie competenze prima di tutto organizzative, accrescere la consapevolezza e la competenza rispetto alla trasformazione digitale per poterla utilizzare per una migliore qualità dei servizi e per non vessare imprese e cittadini con oneri e adempimenti inutili. Per farlo potrebbe essere prevista la costruzione di un catalogo aggiornato delle migliori pratiche per poter costruire un vasto sistema di formazione peer to peer. Importante sarebbe anche la predisposizione di un piano di formazione manageriale per i vertici apicali degli enti per sviluppare un approccio strategico all’innovazione.
Accompagnare le amministrazioni nella semplificazione
Vuol dire sedersi accanto alle amministrazioni più piccole, ai comuni spesso stremati da una costante carenza di personale qualificato, agli enti meno dotati. Vuol dire spostare il centro da Palazzo Vidoni ai territori: vanno previsti team multidisciplinari di esperti su base regionale per aiutare a lavorare le pratiche e per traghettare le amministrazioni verso un ricambio generazionale che avrà comunque bisogno di tempi per l’inserimento e la formazione.
Orientare la PA alle missioni strategiche
Vuol dire ripensare anche la geografia delle amministrazioni risolvendo nodi strutturali decennali (pensiamo al caso delle amministrazioni provinciali). Vuol dire partire dalle missioni strategiche e da obiettivi chiari e mobilitanti ricucendo così l’azione delle diverse strutture e dei diversi livelli di governo sul raggiungimento dei risultati attesi, responsabilizzando tutta la filiera (e non solo le parti di essa più prossime ai destinatari delle azioni) sulla necessità del conseguimento di questi obiettivi. Partire dalle missioni strategiche consente quindi di superare i compartimenti stagni che imprigionano le amministrazioni in tanti silos impermeabili, spesso indifferenti al risultato finale. E, infine, solo missioni chiare e motivanti, corredate da indicatori misurabili e condivisi, consentono di costruire consenso e mobilitazione sui cambiamenti necessari e, rendendo visibile ai cittadini e alle imprese i risultati attesi e l’impatto reale delle politiche, ne rafforzano possibilità e capacità di partecipazione al loro disegno e, se del caso, il loro riorientamento. In questo senso il Piano, quando sarà approvato nella sua versione definitiva, costituirà di per sé la bussola che consentirà di orientare l’azione pubblica e di definirne gli obiettivi.
Aprire la PA alla società
Vuol dire che la PA deve imparare ad essere aperta e capace di collaborarecon il Terzo Settore e le organizzazioni di cittadinanza attiva, confrontandosi con i destinatari degli interventi, per acquisirne conoscenze e preferenze, dando loro l’effettivo potere di orientare le scelte ed essere parte della loro realizzazione. La partecipazione è infatti uno dei veicoli principali per combinare i saperi dei grandi centri di competenza e dei saperi diffusi nei territori e per disegnare quindi politiche a misura delle “persone nei luoghi”. È su queste basi che può ricostruirsi la fiducia del cittadino nelle istituzioni e nel Governo. La nuova amministrazione pubblica deve essere un’amministrazione condivisa: ricettiva delle forme nuove che l’attivismo civico va assumendo, capace di collaborare su un piano paritario riuscendo così a innovare il tradizionale modello dei processi deliberativi e attuativi.
Non è un caso se tra queste cinque azioni non ho citato lo smart working. Non è perché la modalità del lavoro agile non sia importante. Tutt’altro. Un utilizzo flessibile ed intelligente di questo modello organizzativo è una grande occasione d’innovazione, che è però possibile solo nelle amministrazioni che abbiano definito chiaramente obiettivi e risultati attesi chiari e misurabili per ciascuna unità operativa. Amministrazioni che abbiano una maturità adeguata nella trasformazione digitale e nelle relative competenze delle persone, che abbiano sfruttato la stesura del POLA (il Piano Operativo per il Lavoro Agile obbligatorio per legge) non come un ennesimo adempimento, ma come un’occasione per ripensare struttura, organizzazione e relazioni tra le persone. In questo senso la possibilità di usare efficacemente lo smart working, con l’attenzione ai bisogni sia dei lavoratori sia dei cittadini e delle imprese che si rivolgono alla PA, non sarà più un escamotage necessario in epoca di pandemia, da abbandonare appena i tassi di contagio diminuiranno, ma diventerà una nuova opportunità di crescita e di miglioramento per organizzazioni davvero basate sulle persone e sulla fiducia.
[1] Circa lo 0,45% ossia meno di 12mila impiegati su 2.650mila. Fonte Conto annuale della RGS