The day after : parole e pensieri del dopo elezioni
Inutile parlare dei risultati elettorali: il profondo cambiamento culturale, sociologico e politico della geografia del Parlamento è sotto gli occhi di tutti. Ma si sa che, come diceva il mio amato Gaber, “La realtà è un uccello che non ha memoria, devi immaginare da che parte va” e in genere va dove non ci saremmo immaginati. Insomma tutto cambia e il cambiamento, come sempre, ci interroga. Io provo rispondere a questi muti interrogativi buttando giù qualche breve riflessione su quelli che mi sembrano essere alcuni dei pilastri che, pur nella clima rivoluzionario e vagamente giacobino che attraversiamo, non possiamo permetterci di segare se non vogliamo che il tetto della nostra democratica convivenza ci caschi in testa. Come sempre mi limiterò alle cose che rientrano nel novero dei nostri primari interessi, perché di tuttologi ne abbiamo già abbastanza in TV.
6 Marzo 2013
Carlo Mochi Sismondi
Inutile parlare dei risultati elettorali: il profondo cambiamento culturale, sociologico e politico della geografia del Parlamento è sotto gli occhi di tutti. Noi che abbiamo tante volte lamentato un Paese ingessato abbiamo ora pane per i nostri denti, anche se a volte ci sembra di difficile digestione e di un sapore strano e diverso da come ce lo saremmo immaginati. Ma si sa che, come diceva il mio amato Gaber, “La realtà è un uccello che non ha memoria, devi immaginare da che parte va”[1] e in genere va dove non ci saremmo immaginati. Insomma tutto cambia e il cambiamento, come sempre, ci interroga. Io provo rispondere a questi muti interrogativi buttando giù qualche breve riflessione su quelli che mi sembrano essere alcuni dei pilastri che, pur nella clima rivoluzionario e vagamente giacobino[2] che attraversiamo, non possiamo permetterci di segare se non vogliamo che il tetto della nostra democratica convivenza ci caschi in testa. Come sempre mi limiterò alle cose che rientrano nel novero dei nostri primari interessi, perché di tuttologi ne abbiamo già abbastanza in TV.
Quattro parole chiave: la prima è rete. In teoria tutti sanno e scrivono della potenza della rete, in genere citando a proposito o a sproposito Obama e la primavera araba; ora che gli effetti di una rete capillare nata da un blog li abbiamo sotto gli occhi viene da chiedersi se e come la PA è pronta a lavorare veramente in rete. Due gli aspetti fondamentali: il primo è di ordine culturale e “politico” ed è la capacità della dirigenza di ripensare il perimetro dell’azione pubblica, di guardare fuori e di sentirsi parte di un’azione collettiva di una comunità locale. Non mi pare che l’eccessiva burocratizzazione del lavoro pubblico e il suo progressivo ingessamento in ottica difensiva stia andando in questo senso. Ne abbiamo già parlato molte volte.
Il secondo è di ordine tecnologico: la rete della PA semplicemente non c’è. Ci sono molte reti sia nazionali, sia territoriali su base provinciale e regionale, in parte, ma solo in parte, federate attraverso il protocollo del Sistema Pubblico di Connettività (SPC), che garantisce alcuni servizi di interoperabilità e alcuni servizi di base (connettività, cooperazione, accesso, servizi ai cittadini e alle imprese, ecc.) e che è per altro tutto da ripensare alla luce del vorticoso procedere delle tecnologie.
La seconda parola è partecipazione. La risorsa data dai cittadini attivi secondo il paradigma della sussidiarietà orizzontale, ancorché molto evocata, è ancora largamente sottovalutata e non considerata quasi mai strategica. Eppure, come la realtà ci dimostra, la voglia di partecipare esiste, il ruolo di prosumer[3] è ben studiato, gli strumenti esistono. Certo la partecipazione non è caos né assenza di regole, ma deve essere regolata da statuti chiari e trasparenti, soggetti ad un’evoluzione democraticamente decisa. In questo senso non sempre annullare l’intermediazione attraverso forme di sondaggio continuo da telecomando è sinonimo di democrazia e quasi mai di trasparenza.
E trasparenza è la nostra terza parola: qui la partita è aperta. Il Paese è, ora come non mai, di fronte alla sfida della trasparenza e dell’accountability. La soglia di sopportazione dell’asimmetria informativa che ha contraddistinto il rapporto tra governo e governati si è drammaticamente abbassata e, anche a causa dei continui e ripetuti scandali, non tolleriamo più di non sapere dove vanno a finire i nostro soldi e come sono scelte le persone che sono a capo delle politiche pubbliche.
Se su questo obiettivo non ci possono essere arretramenti o incertezze altrettanto forte dobbiamo dire che liberare qualche centinaio di dataset, scelti tra i più facili a esporre per le PA e non tra i più interessanti per i cittadini, non è open government. Quel che serve è una prassi di apertura e pubblicità dei dati che porti ad un empowerment dei cittadini, perché siano in grado, come per altro chiede la legge (L. 15/09; D.L. 150/09 “riforma Brunetta” e molte altre fonti primarie) di espletare un controllo civico sull’operato delle amministrazioni, sulla qualità dei servizi resi, sul rapporto tra costi e benefici prodotti da ciascun ente. Qui abbiamo tutte le leggi del mondo, ma parliamoci chiaro: pochissime amministrazioni le rispettano e per quelle poche il rispetto è spesso solo formale. In questo senso una forte spinta politica, data anche dai nuovi eletti del M5S, ma non solo da loro, non potrà che essere positiva.
Non c’è però trasparenza senza verità e non c’è verità senza una solida cultura e un solido rispetto dei dati e dei numeri.
E dati è la nostra quarta parola. Anche qui mi sembra che dobbiamo fare ancora una lunga strada. L’Italia si sa, a furia di cultura classica e atti dello spirito di Gentiliana memoria, non è mai stata molto amante dei numeri, la politica italiana ancor meno. Abbiamo quindi dichiarazioni di politici per lo meno imbarazzanti. Discorsi e programmi basati su numeri non verificati, appelli alla pancia che non passano per la testa. Se volete qualche esempio guardate il fact checking fatto dalla testata online “la voce.info”. Scoprirete così che per Berlusconi i disoccupati europei sono 50 milioni mentre in realtà sono la metà o che lo Stato italiano costa il 50% in più di quello tedesco mentre la spesa pubblica pro capite è di 14.362 euro per ogni tedesco contro 12.973 euro per ogni italiano. Scoprirete che Grillo parla di un risparmio abolendo le province di oltre 10 miliardi, mentre tutte le analisi più serie valutano tale ammontare a molto meno di un miliardo (510 milioni per l’analisi più recente ed aggiornata) o che il consumo medio pro capite di energia in Europa è di 6.000 watt, quando il massimo è stato poco sopra i 4.000. Leggerete che Fassina dice che l’Italia è l’unico paese in cui il tempo determinato costa meno del tempo indeterminato, mentre è così in tutta Europa, che De Magistris dice che la regione Campania ha speso meno del 10% delle risorse europee invece ne ha speso un po’ più del 20%
Capiamoci non è che i discorsi in cui questi dati sbagliati erano citati fossero sballati, tutt’altro: i disoccupati europei sono comunque un’enormità, lo Stato italiano costa troppo per quel che dà; dal taglio delle province si può risparmiare come si può e si deve risparmiare energia; il tempo determinato e i contratti atipici sono usati a sproposito e la regione Campania è inefficiente nello spendere i soldi europei. Peccato però che i dati citati non fossero giusti e che i politici che li hanno messi a prova delle loro argomentazioni non abbiano avuto rispetto dei numeri.
Per questo ci servono gli open data, per avere rispetto dei numeri e per non dover più sentire penose discussioni nel talk show con foglietti che recitano cifre diverse. Perché i cittadini sappiano e decidano con la loro testa se un dato è accettabile o meno. Governare con la rete, intridere di partecipazione la vita democratica, accettare la sfida della trasparenza e dire la verità sui numeri sarebbe già un bel modo per cominciare la nuova legislatura e per dare un senso alla parola “Pa digitale”. Ci vogliamo provare?
1 Trovate testo e musica qui: http://www.lyricsmania.com/la_realt%C3%A0_%C3%A8_un_uccello_lyrics_giorgio_gaber.html
2 In questo momento mi premetto di consigliare caldamente a chiunque faccia politica di studiare a fondo la storia dei dieci anni che separano la presa della Bastiglia dalla presa del potere da parte di Napoleone. La continua rincorsa a chi è più puro e rivoluzionario e taglia più teste non finisce bene. Io amo molto il non recentissimo ma affascinante e vasto saggio di Furet e Richet “La rivoluzione francese” edito da Laterza in edizione economica nel 1980. La psicologia del rivoluzionario di quegli anni in “La Francia rivoluzionaria” di Vovelle, Laterza, 1974.
3 Prosumer (producer + consumer) è un paradigma del web 2.0 dove chi usufruisce di un’informazione ne è spesso anche produttore (pensate ai siti di consigli sui viaggi, gli alberghi, i ristoranti, ecc.)