EDITORIALE

Un quadrilatero magico per una PA capace di cambiare il paese

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Ci troviamo in questo momento nella scomoda posizione data dall’incertezza nei riguardi del domani – Quando finirà la pandemia? Quando riprenderemo una vita normale? E questa normalità, sarà sana? Ce la faremo tutti a riprendere il cammino o lasceremo indietro i più deboli? – ma anche dalla certezza che siamo di fronte a enormi responsabilità derivate dalle altrettanto grandi opportunità che l’Unione europea ci mette a disposizione. Crediamo però che, per cogliere queste opportunità, serva una PA profondamente rigenerata e quattro ci sembrano i fronti su cui combattere questa battaglia che è, a nostro parere, la priorità principale per il paese

29 Gennaio 2021

Carlo Mochi Sismondi

Presidente FPA

Photo by Almos Bechtold on Unsplash - https://unsplash.com/photos/AJ_Mou1FUS8

Lo scorso anno, nelle consuete considerazioni che aprivano la precedente edizione dell’annuario, pur riconoscendo i passi avanti fatti, mettevamo in evidenza la mancanza, nella complessità del presente, di parole d’ordine condivise e non generiche sul futuro desiderato, l’assenza quindi di una visione di futuro chiara e definita da poche grandi priorità. Un’assenza che ci sembrava causa di una sorta di astenia psicologica, tale da togliere al paese l’energia e l’immaginazione, ma anche gli ambiziosi desideri che sono necessari per progettare quello sviluppo equo e sostenibile pur vagheggiato a parole.

Dopo un anno così tragicamente diverso, quando la visione di futuro rischia di scomparire di fronte alla necessità di resistere al presente, ci troviamo nella scomoda posizione data dall’incertezza nei riguardi del domani – Quando finirà la pandemia? Quando riprenderemo una vita normale? E questa normalità, sarà sana? Ce la faremo tutti a riprendere il cammino o lasceremo indietro i più deboli? – ma anche dalla certezza che siamo di fronte a enormi responsabilità derivate dalle altrettanto grandi opportunità, che un’Unione europea risvegliatasi dal lungo sonno burocratico ci mette a disposizione per quella che Enrico Giovannini ha chiamato “resilienza trasformativa”. Ossia per sfruttare la terribile discontinuità dovuta al Covid-19, per cambiare l’orientamento del nostro sviluppo.

Una posizione assai scomoda dicevamo, perché il pericolo che incombe su ciascuno di noi e che è entrato nelle nostre case, la responsabilità dei semplici gesti di difesa, la frustrazione data da una riscoperta vulnerabilità individuale e sociale, rischiano di togliere lucidità e lungimiranza a scelte che, fatte oggi, segneranno profondamente i decenni a venire.

In questa consapevole fragilità collettiva hanno trovato una nuova centralità lo Stato, l’amministrazione pubblica, di cui la sanità è stata la parte più visibile con i suoi eroi pro tempore, e le istituzioni del territorio. Come dice Ilvo Diamanti, commentando l’annuale ricerca di Demos che rileva il rapporto tra i cittadini e lo Stato, uscita a fine dicembre 2020, <<l’atteggiamento dei cittadini verso lo Stato e le principali istituzioni pubbliche appare nuovamente orientato alla fiducia. Ma il motore di questo cambiamento non è politico, né anti-politico. È, invece, dettato dal sentimento di incertezza, per certi versi paura, che si è diffuso rapidamente nel corso dell’anno, dopo l’irruzione del virus>>.

A questa nuova fiducia le istituzioni paiono rispondere in una forma ambigua: da una parte con un consenso unanime sulla necessità di una ripresa che rilanci su basi nuove lo sviluppo, puntando su innovazione, ricerca, istruzione, crescita della competitività e della produttività del lavoro; dall’altra con un’accentuata frammentazione nelle proposte di strategie, di priorità e di modalità di esecuzione. Una frammentazione che non è solo quella fisiologica tra le diverse parti politiche, ma che taglia verticalmente anche i diversi livelli di Governo che, come sempre dopo la frettolosa riforma del Titolo V della Costituzione, fanno grande fatica a trovare una sintesi.

Sarebbe estremamente pericoloso però se questa frammentazione si estendesse poi anche alle azioni e ai progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che, con i suoi quasi 200 miliardi, costituisce il contesto di tutta la strategia di sviluppo dei prossimi anni. Sulla base di una prima lettura del piano questa preoccupazione non ci sembra infondata. Sembra infatti mancare, per ora, una sintesi tra le missioni, le componenti e i progetti che riduca la pluralità degli obiettivi e la molteplicità degli stanziamenti a poche e ambiziose priorità in grado di cambiare radicalmente la direzione dello sviluppo, e attuare così quella politica di “costruttori” che il Presidente della Repubblica ha invocato nel suo messaggio di fine anno.

E la PA? Investite da nuove responsabilità e alle prese con modelli organizzativi e di lavoro mai prima sperimentati, le amministrazioni pubbliche hanno risposto tutto sommato bene all’emergenza, ma la pandemia, come una cartina al tornasole, ha messo in evidenza con chiarezza le organizzazioni che erano pronte alla sfida e quelle che invece non lo erano. Tutte le amministrazioni hanno poi scontato vecchie e nuove debolezze. Non ripetiamo qui i numeri che testimoniano questo stato di precarietà, li potete trovare nel contributo di Gianni Dominici che apre il nostro Annual Report, e nei due articoli che introducono il primo capitolo, basti dire che le amministrazioni sono sempre più vecchie, sempre più povere di personale in generale, e di profili professionali adeguati in particolare, sempre meno formate e con una forza lavoro distribuita secondo funzioni non più attuali e bisogni che erano importanti nel secolo scorso.

Le amministrazioni arrivano quindi alla sfida della ripresa e della resilienza con un profondo bisogno non di un’ennesima riforma del secolo, fatta di decine di decreti legge, ma di cura e di accompagnamento, di attenzione e di rispetto verso le persone che in essa lavorano, di strumenti di ascolto e di partecipazione. E, ancor prima, di ritrovare in una nuova visione di paese le ragioni di un cambiamento necessario, ma che deve essere prima di tutto compreso e condiviso. Perché la prima risposta che dobbiamo cercare è alla domanda “Quale PA per quale paese?”. Se questa domanda è non solo lecita, ma necessaria, allora chiediamoci quale PA serve a una comunità nazionale che vogliamo si incammini sulla strada di uno sviluppo inclusivo, sostenibile, più giusto e capace di ridurre e non accrescere le disuguaglianze; uno sviluppo che consideri le diversità una ricchezza e non un pericolo, e l’innovazione un motore per moltiplicare le opportunità e le capabilities di ogni persona, e non i privilegi e i monopoli.

Noi crediamo che per questo paese serva una PA profondamente rigenerata, attraverso un’azione coerente e costante di miglioramento, che renda tutte le amministrazioni capaci di supportare il decisore politico nel costruire strategie e obiettivi di spesa, e poi nel realizzarli bene e con tempestività. La rilegittimazione del “pubblico” che la pandemia ha portato, deve quindi evolversi in un “pubblico” competente e rinnovato, non invasivo, capace di dare certezze e fissare indirizzi e poi di adattarli, luogo per luogo, a misura delle persone e dei contesti, dialogando con lavoro, impresa e società civile in funzionali e operativi spazi di partecipazione, e poi agendo con tempestività nel mettere in campo le soluzioni individuate, capace di attuare nei tempi richiesti le azioni previste. È questo il modo per riguadagnare fiducia. Allo stesso tempo, sono solo la forza e la chiarezza delle missioni affidate alle amministrazioni pubbliche che, tornando a motivare i pubblici dipendenti, possono rendere possibile tale salto di qualità, come abbiamo sottolineato in un documento redatto insieme a FORUM DD.

Quattro ci sembrano i fronti su cui combattere questa battaglia che è, a nostro parere, la priorità principale per il paese, perché non ci saranno ripresa né resilienza, ma neanche giustizia e coesione sociale senza una PA di qualità. Un quadrilatero magico di “più”, in cui ogni lato è necessario, e che trova la sua forza nella sinergia degli obiettivi e nel fine ultimo che è quello disegnato dall’Agenda 2030: una maggiore giustizia sociale e ambientale.

Più giovani nelle amministrazioni, più donne al comando

Èinutile che ci giriamo attorno, quando leggiamo che nella PA (escluse forze dell’ordine, militari e infermieri) ci sono meno di 5 giovani di età inferiore a trent’anni ogni mille impiegati pubblici[1], quando vediamo che nelle PA centrali l’età media è di quasi 55 anni e il 24 % ha più di 60 anni, non possiamo che chiedere con forza di riequilibrare la composizione anagrafica della PA e con essa il potere stesso di cambiarla. Se poi vediamo che su 1.707 lavoratori pubblici tra dirigenti di prima fascia, direttori generali, prefetti e diplomatici solo 499 sono donne (29%) mentre nel complesso della PA le donne sono in netta maggioranza (1,69 milioni contro 1,34 di uomini ossia il 56%) capiamo che, oltre alla necessità di un nuovo equilibrio per età, esiste un serio problema di parità di genere e dobbiamo quindi impegnarci a restituire potere e ruolo alla componente femminile. Assumere giovani e valorizzare le donne nella PA, quindi, è necessario e urgente. Ma altrettanto necessario è rendersi conto che, con queste assunzioni, stiamo disegnando l’amministrazione per i prossimi decenni e stiamo, finalmente, dando l’opportunità a una leva di giovani di dare un contributo forte al paese, di avere potere. Non possiamo permetterci di sbagliare.

Occorre quindi, banalmente, partire dalle cose che è necessario fare e poi definire chi le deve fare. Questo vuol dire non indire precipitosamente concorsi per sostituire i lavoratori in uscita, prima di aver verificato la composizione sia qualitativa sia quantitativa del personale che ora serve. Ma significa anche guardare con estrema attenzione alla coerenza tra il “piano dei fabbisogni di personale”, derivato dal “Decreto Madia” e, da una parte i documenti di programmazione che indicano gli obiettivi strategici e specifici da raggiungere, dall’altra i documenti di bilancio che indicano su quali risorse finanziarie si può contare. Quindi sì ai concorsi, ma in forma innovativa e mirata. L’ultima cosa che serve è riprodurre l’esistente.

Più focalizzazione sulle missioni e sui risultati attesi

Occorre quindi, ora che siamo in procinto di varare un piano che ci accompagnerà per molti anni, ricostruire le filiere amministrative coinvolte dalle missioni strategiche individuate dal piano per valutarne i fabbisogni di personale, in modo da definire le risorse umane e i profili necessari all’attuazione e quindi alla credibilità del piano stesso. E quando parliamo di missioni strategiche pensiamo, ad esempio, alle politiche rivolte al superamento della povertà educativa o della disparità di genere, o a quelle per lo sviluppo delle aree marginalizzate, siano esse aree interne o periferie urbane, o alle politiche di contrasto al disagio abitativo, o alle tante politiche e azioni necessarie per combattere il cambiamento climatico come, infine, a quelle rivolte a rendere accessibile l’innovazione da parte delle nostre PMI e promuovere la trasformazione digitale del paese come strumento di uguaglianza e pari opportunità per tutti.

Sono tutte politiche che richiedono lo sforzo congiunto di più livelli di governo, dallo Stato centrale, sino ai piccoli Comuni, e una forte cooperazione orizzontale all’interno dei diversi livelli. Partire dalle missioni strategiche e da obiettivi chiari e mobilitanti consente poi di ricucire l’azione delle diverse strutture e dei diversi livelli di governo sul raggiungimento dei risultati attesi, responsabilizzando tutta la filiera (e non solo le parti di essa più prossime ai destinatari delle azioni) sulla necessità del conseguimento di questi obiettivi. Partire dalle missioni strategiche consente quindi di superare i compartimenti stagni che imprigionano le amministrazioni in tanti silos impermeabili, spesso indifferenti al risultato finale. E infine, solo missioni chiare e motivanti, corredate da indicatori misurabili e condivisi, consentono di costruire consenso e mobilitazione sui cambiamenti necessari e, rendendo visibile ai cittadini e alle imprese i risultati attesi e l’impatto reale delle politiche, ne rafforzano possibilità e capacità di partecipazione al loro disegno e, se del caso, il loro riorientamento.

Più attenzione alle persone dentro e fuori la PA

Non ci sarà innovazione né migliori amministrazioni pubbliche senza una più grande e più costante attenzione alle persone e un investimento significativamente maggiore nella loro formazione. La formazione non può essere vista come un addendum alla gestione delle amministrazioni, ma ne è un elemento fondamentale che determina la qualità dell’azione amministrativa e il benessere organizzativo dei dipendenti e delle unità operative, oltre a costituire un importante fattore di integrazione tra personale presente e neoassunti, e di costruzione dello spirito di squadra.

Imparare continuamente non è solo una necessità per ogni organizzazione, ma è anche, in una società in costante e rapido mutamento, un diritto per ogni lavoratore e una garanzia di attirare nel lavoro pubblico i migliori, e di essere capaci di trattenerli. La formazione determina anche la capacità della PA di dialogare con l’esterno, per questo dovrebbe prevedere momenti di condivisione con imprese, cittadinanza attiva, partner europei e favorire scambi, sperimentazioni e sviluppo di progettualità condivise. La formazione efficace richiede non solo risorse e programmazione, ma anche una chiara identificazione degli obiettivi in tema di competenze disciplinari e organizzative, e una costante valutazione del suo impatto e della sua utilizzazione reale nell’ambito dell’organizzazione. Troppo spesso la dirigenza e i vertici apicali non hanno posto sufficiente attenzione a questo aspetto fondamentale per la crescita delle persone.

Accanto alla formazione, promuovere l’innovazione vuol dire non affastellare nuove norme che, come matrioske, richiedono ulteriori provvedimenti applicativi e così via, ma investire in azioni concrete di accompagnamento che possano trovare un loro fondamento nello scambio peer2peer tra i funzionari e i dirigenti pubblici, per mettere in comune l’enorme quantità di dati e di saperi che sono nel corpo delle amministrazioni, ma che non diventano conoscenza condivisa.

In questo contesto la trasformazione digitale diviene piattaforma abilitante di una PA che sia competente e capace di attuare le politiche, e quindi di migliorare la qualità della vita di cittadini e imprese. Le amministrazioni hanno infatti il compito di soddisfare i bisogni di lavoro, di salute, di sicurezza, di cultura, di istruzione, di mobilità, di crescita sociale, professionale ed economica. Nessuno di questi bisogni potrà oggi essere soddisfatto senza una profonda, intelligente e pervasiva trasformazione digitale dei processi e della stessa catena di produzione del valore, sia esso valore economico o “valore pubblico”.

Ma lo sviluppo del digitale e lo sviluppo delle politiche devono crescere insieme in un processo virtuoso di interdipendenza, in cui l’obiettivo politico orienta la tecnologia ma, dal canto suo, la piattaforma tecnologica apre nuovi orizzonti alla politica. Saranno il bisogno di salute e la necessità della sostenibilità del sistema sanitario universalistico, che trascineranno il bisogno di sanità digitale, ma sarà il digitale che suggerirà nuovi modelli organizzativi, ad esempio alla sanità territoriale. Sarà l’obiettivo di una scuola di qualità che renderà i giovani cittadini liberi, consapevoli, coscientemente partecipi della società, che trascinerà il piano di scuola digitale, ma sarà la didattica digitale che suggerirà nuove metodologie più partecipate e interattive e aprirà a contenuti prima impossibili da raggiungere. Sarà la convinta adesione alla transizione verde e all’economia circolare che spingerà il digitale a essere più sostenibile, meno affamato di energia, più attento a non sviluppare disuguaglianze che mettano in pericolo la sostenibilità sociale, ma sarà il digitale a permettere le smart grid, l’efficientamento energetico degli edifici e dei trasporti. E così via, innescando circoli virtuosi di innovazione e imprenditorialità che possono essere alla base del rilancio della nostra PA, ma anche del nostro paese. Circoli virtuosi che però richiedono una sempre maggiore attenzione alle persone.

Spesso la digitalizzazione è stata invece condotta dimenticando le reali necessità delle persone che si avvalgono dei servizi dell’amministrazione, e gli ostacoli che cittadini e pubblici dipendenti incontrano quando viene loro richiesto di “passare al digitale”: da quelli più concreti, come l’accesso a internet, a quelli più astratti, come l’esistenza di conoscenze adeguate per navigare le piattaforme messe in campo dalla PA, spesso troppo complesse e dettate da logiche lontane dal cittadino e dalla sua esperienza quotidiana in rete. La brusca accelerazione imposta dall’emergenza pandemica ha messo in luce che un modello diverso è possibile e che le persone, quando adeguatamente ingaggiate, sono in grado di cambiare. Cittadini e lavoratori pubblici si sono messi in gioco, hanno in massima parte dimostrato impegno, iniziativa e senso di responsabilità. Ma lo hanno fatto in molti casi non “grazie” alle loro organizzazione, ma “nonostante” l’impreparazione derivante da anni di tagli e disinteresse. In tantissimi ambiti cruciali per la vita del paese (scuola, sanità, sicurezza, assistenza alle persone, ecc.) i lavoratori hanno dovuto improvvisare, supplire con mezzi propri all’assenza di strumenti professionali, reinventarsi lavoratori agili e digitali. Le persone, per lo meno una gran parte di loro, hanno fatto la loro parte, ricevendo spesso in cambio sospetto, incomprensione e il perdurare di un ostinato pregiudizio.

Più partecipazione e più ascolto di tutta la società

Tutto questo processo, sinteticamente delineato nei tre obiettivi precedenti, non avrà però né forza né orientamento se la PA non imparerà a essere aperta e capace di collaborarecon il terzo settore e le organizzazioni di cittadinanza attiva, confrontandosi con i destinatari degli interventi, per acquisirne conoscenze e preferenze, dando loro l’effettivo potere di orientare le scelte ed essere parte della loro realizzazione. L’obiettivo di un’amministrazione condivisa non è infatti un argomento (solo) di convegni, ma deve essere la stella polare di ogni vera innovazione. La partecipazione è infatti uno dei veicoli principali per combinare i saperi dei grandi centri di competenza e i saperi diffusi nei territori e per disegnare quindi politiche a misura delle “persone nei luoghi”. È su queste basi che può ricostruirsi la fiducia del cittadino nelle istituzioni e nel Governo, tanto che la Commissione europea ne ha fatto uno dei capisaldi per il nuovo Programma Quadro e per le più recenti azioni strategiche, quali il Green Deal.

La partecipazione deve quindi continuare a diffondersi, ma vanno studiati strumenti in grado di rendere visibile l’impatto concreto della partecipazione, attingendo anche a iniziative legate al mondo della comunicazione, stimolando così la rinascita di fiducia dei cittadini nelle istituzioni.

La nuova amministrazione pubblica deve essere un’amministrazione condivisa: ricettiva delle forme nuove che l’attivismo civico va assumendo, capace di collaborare su un piano paritario, riuscendo così a innovare il tradizionale modello dei processi deliberativi e attuativi. Investendo continuamente su nuove sperimentazioni e nuove governance, che superano i tradizionali approcci, dando più potere alla società civile e rendendo più flessibile l’azione pubblica. Serve, insomma, un più profondo coinvolgimento delle organizzazioni di cittadinanza sia nella fase ascendente delle strategie – come ora nel disegno del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – sia nella fase di realizzazione delle iniziative, ricorrendo sistematicamente alla co-programmazione e co-progettazione e cercando di fronteggiare l’incertezza attraverso sperimentazioni e continui aggiustamenti. Perché questo sia possibile è necessaria una nuova e coraggiosa politica di trasparenza e di collaborazione, basata sulla condivisione dei dati e sul loro uso pubblico. L’esperienza di questi mesi di pandemia è stata da questo punto di vista deludente, ma ha messo anche davanti agli occhi di tutti la necessità per il paese di una nuova data governance. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che andremo ad attuare nell’anno che comincia ora, sarà in questo senso un experimentum crucis per provare quanto sarà solida la volontà di un’apertura democratica alla partecipazione, un’apertura che non potrà esserci però, se non si abbatteranno sin da ora le asimmetrie informative che la rendono impossibile.

Queste le quattro gambe su cui poggiare la nostra speranza di un futuro migliore, quattro obiettivi che sono, a nostro parere, raggiungibili anche nel corso di un tempo ragionevolmente breve, ma che richiedono coerenza e costanza, lucidità e lungimiranza. Non ce li regala nessuno. Né può bastare l’occhio europeo, che pure in ogni suo documento ha messo la riforma della PA italiana tra le prime raccomandazioni. È necessario che la politica si decida a investire in risorse umane, finanziarie e tecnologiche, in uno sforzo che superi gli schieramenti di parte e coinvolga tutta la comunità nazionale per questa che è, e rimane, la prima priorità del paese. Né può essere una risposta adeguata scavalcare questo necessario impegno politico con la costruzione di “amministrazioni parallele” o con l’uso di norme in deroga di carattere emergenziale. Per avere pubbliche amministrazioni adeguate, semplici e veloci, di tutto abbiamo bisogno meno che di strutture parallele, dotate di poteri speciali, che si sostituiscano alle amministrazioni. Non ce n’è bisogno, sia perché deprimere le amministrazioni invece che rafforzarle non può che essere controproducente, sia perché sarebbe impossibile riuscire così a smuovere decine di migliaia di unità operative che, di fronte tali provvedimenti, alzerebbero le braccia.

Questo impegno sarà anche la condizione che permetterà il recupero della fiducia. La fiducia della politica nei confronti della sua amministrazione, una fiducia che le permetta di non moltiplicare le norme. La fiducia dell’amministrazione verso la politica, assumendo così in pieno un compito di attuazione intelligente e di capacità discrezionale, senza paura di prendere le necessarie decisioni, anche in condizioni di incertezza. La fiducia, più importante di tutti, dei cittadini verso le amministrazioni e la politica. Una fiducia informata, consapevole e non incondizionata, ma positiva e attiva. Perché, in questo 2021 che tutti speriamo migliore, ciascuno faccia la sua parte.

Vi invitiamo in chiusura a rileggere anche l’appello di FPA – Forum Disuguaglianze Diversità – Movimenta “Se la PA non è pronta”

NdR: Questo articolo è tratto dall’Annual Report 2020 di FPA (disponibile online gratuitamente, previa registrazione)


[1] Circa lo 0,45% ossia meno di 12mila impiegati su 2.650mila. Fonte Conto annuale della RGS

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