Una dirigenza a rischio?
La prima impressione che ho avuto leggendo sia l’art. 9 del disegno di legge “Madia” che riforma la dirigenza, sia le reazioni dei dirigenti, è stata che è necessaria una robusta iniezione di fiducia. Il disegno di legge delega fa intravedere infatti in filigrana una scarsa fiducia della politica verso l’amministrazione, come se fosse composta tutta da conservatori, frenatori e burocrati; specularmente la reazione dei dirigenti alla riforma è improntata in generale ad una scarsissima fiducia nella politica, come se fosse fatta tutta di pirati che vogliono imporre solo yes man, veline o portaborse. Ma la fiducia è necessaria per assumersi rischi e un dirigente che non rischia nulla non merita né di fare il dirigente né di guadagnare otto/dieci volte più di un suo dipendente. Ripartiamo quindi da qui: dal ripristinare le condizioni della fiducia, cominciando per prima cosa a guardare con onestà gli errori fatti, e non sono pochi.
29 Aprile 2015
Carlo Mochi Sismondi
La prima impressione che ho avuto leggendo l’art. 9 del disegno di legge “Madia” che riforma la dirigenza e, insieme, le reazioni dei sindacati e delle associazioni dei dirigenti è stata che è necessaria una robusta iniezione di fiducia. La fiducia è l’ingrediente che infatti mi pare più scarso: il disegno di legge delega fa intravedere in filigrana una scarsa fiducia della politica verso l’amministrazione, come se fosse composta tutta da conservatori, frenatori, burocrati, pietre d’inciampo di ogni riforma e zavorra del paese; specularmente la reazione dei dirigenti alla riforma, o per lo meno dei loro sindacati ed associazioni, è improntata in generale ad una scarsissima fiducia nella politica, come se fosse fatta tutta di pirati che vogliono imporre solo yes man, veline o portaborse. In questa reciproca sfiducia nasce e cresce poi la sfiducia dei dipendenti verso i loro dirigenti e la loro organizzazione e quella, assai più grave, dei cittadini verso entrambe, politica ed amministrazione, con il conseguente distacco sempre maggiore dalle istituzioni democratiche. Ma per rispristinare le condizioni della fiducia è necessario poter contare su una politica che sia all’altezza del compito in tutti i suoi livelli, dai ministri agli assessori delle piccole città e di dirigenti che credano veramente che il loro posto ed il loro stipendio debba dipendere dai risultati percepibili dai cittadini. In una parola da come va l’azienda Italia.
Per ottenere fiducia è però altresì necessario ammettere gli errori e le storture esistenti di cui è colpevole la politica così come l’amministrazione e gli stessi sindacati dei dirigenti che ora strepitano. Chi grida allo scandalo per l’autonomia violata della dirigenza ci dica dov’era quando sono nati tanti ruoli separati, creati nel 2004 dal Governo Berlusconi a seguito dello smantellamento della riforma Bassanini, in cui la dirigenza si è accomodata, perseguendo per ciascuno, con maggiore o minore successo, vantaggi retributivi e sbandierando sempre e comunque una specificità che è diventata generalità. Basta guardare alle differenze di compensi tra dirigenti di prima fascia appartenenti a diversi ruoli, per rendersi conto della stratificazione dei privilegi che ha premiato chi è stato più vicino al potere, basta guardare alla crescita spropositata del numero dei dirigenti e al rapporto tra i dirigenti e i loro dipendenti per vedere con chiarezza che tali privilegi non sono legati alle responsabilità effettive né all’effettivo espletamento della funzione dirigenziale. Basta infine guardare la scandalosa anomalia dei compensi dei nostri dirigenti apicali rispetto ai loro colleghi dei paesi OCSE, per intravedere un uso quanto meno spregiudicato della funzione di cerniera tra l’amministrazione e la politica che è stato concesso a tali posizioni. A queste storture la riforma prova a mettere rimedio, se ci riuscirà non lo sappiamo, ma certo va guardata con onesta speranza.
Perché la discussione non diventi poi surreale sarà necessario guardare qualche mito con più realismo e con un atteggiamento libero da pregiudizi. Mi rifiuto di dire ad esempio che i concorsi per tutti sono la soluzione. Senza arrossire affermo che i concorsi saranno sì tranquillizzanti e benedetti dalla Costituzione, ma così come sono non discriminano nulla e che nessun imprenditore (parlo a ragion veduta visto che faccio l’imprenditore da tanti anni) assumerebbe un suo dirigente senza poterne valutare il curricolo, l’esperienza pregressa, i risultati raggiunti, la sua attitudini alle gestione delle persone, il suo equilibrio emotivo, i suoi interessi, ma potendo considerare per la scelta solo i suoi titoli di studio e i risultati di due compiti scritti (magari il primo a quiz) su materie che nulla hanno a che vedere con quello che farà e di un colloquio orale di una mezz’ora (se va bene). Non prendiamoci in giro quindi e se proprio non ci fidiamo della discrezionalità del dirigente o del politico che deve scegliere, se ci scordiamo che discrezionalità fa rima con responsabilità e che le due cose devono necessariamente marciare assieme, almeno riformiamo i concorsi, allarghiamo l’esperienza dei corsi-concorso, diffondiamo un tutoring intelligente degli aspiranti dirigenti.
Perché poi la legge non rimanga nel campo delle grida manzoniane, ma entri nel campo dei comportamenti è necessario ripensare da capo l’immagine stessa del dirigente che deve sentirsi più simile ad un manager tout court, non per qualche norma contrattuale, ma perché accetta un rischio. E non basta certo sottolineare ad ogni piè sospinto che la PA non è un azienda per convincermi che un dirigente pubblico non deve rischiare nulla. Il concetto stesso di rischio è lontano dalla mentalità del dipendente pubblico, se non in una forma poco limpida e legata alle cordate politiche o sindacali che possono spiazzare anche i più bravi, ma il rischio è connaturato nella funzione dirigenziale. E’ la stessa ragione che giustifica stipendi maggiori anche di dieci volte rispetto ai propri collaboratori, è la caratteristica di chi valuta il proprio operato non dalla diligenza, dall’efficienza o dagli input , ma dai risultati in termini di soluzione dei bisogni, di qualità della vita dei cittadini e delle imprese, di outcome. Certo il rischio a cui penso deve riguardare il raggiungimento dei risultati, l’ottimale allocazione delle risorse, il successo complessivo nella missione dell’ente, non l’affinità politica o l’acquiescenza al ministro di turno. Accanto al rischio il dirigente che la riforma disegna deve accettare anche di essere intrinsecamente mobile, ossia di immaginare la propria carriera come un susseguirsi di esperienze anche diverse. La carriera diventa, come per tutti i manager moderni, un progetto personale e continuo di crescita, dove le competenze acquisite e i risultati raggiunti sono le uniche garanzie. Nulla di più lontano dalla sostanziale stanzialità del dirigente attuale che entra in un’amministrazione e spesso ci passa tutta la vita.
Quel che serve quindi è un ripensamento radicale dello status del dirigente, ma per questo cambio di paradigma nessuna legge, neanche questa, può bastare: è necessario un passaggio dal piano delle norme a quello dei comportamenti che non può che derivare da una coerente e tenace permanenza nello sforzo riformatore che superi la contingenza di un Governo, per quanto questo si senta “rivoluzionario”, ed entri nella cultura della nostra classe dirigente. Una legge è sempre solo l’inizio di un processo: abbandonarlo a se stesso vuol dire condannarlo a morte certa. E il cimitero di riforme mancate lo testimonia.