Una nuova cultura della responsabilità: creiamo valore partendo da qui

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Proviamo, con questo contributo, ad indicare succintamente i nodi gordiani, antichi e mai sciolti definitivamente, che da tempo si osserva essere ostacoli alla modernizzazione sui quali fanno leva i tanti “gattopardi” che nelle pubbliche amministrazioni vivono di tensioni ostili al cambiamento

9 Maggio 2019

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Marco Villani

Consigliere della Corte dei Conti

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Francesco Verbaro

Senior advisor Adepp

Photo by Clark Tibbs on Unsplash - https://unsplash.com/photos/oqStl2L5oxI

Stiamo vivendo un momento in cui, nel nostro Paese, in Europa e nel mondo, i meccanismi democratici sono messi in discussione e le stesse Forme di stato e di governo appaiono indebolite ed incerte rispetto al futuro; perciò è doveroso interrogarsi sul modello delle nostre istituzioni e sulla produttività in termini di efficienza e redditività – economica e sociale – delle nostre amministrazioni, elemento che deve essere ulteriore – ma necessario – rispetto alla mera legittimità.

Appare evidente come la nostra crisi fiscale sia lo specchio di un’economia che ristagna in un Paese anello debole di un’Europa che non riesce a trascinare fuori dalle secche i singoli Stati. Anche dopo dolorosi tagli alla spesa non si è trovata la via del miglioramento e la soluzione alle storiche debolezze dello Stato italiano e della nostra PA, compromettendo il rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini. Siamo ben oltre il rispetto del requisito minimo del “no taxation without representation”. La generalizzata percezione nell’opinione pubblica che i costi sostenuti in termini di tassazione non si traducano in livelli adeguati dei beni e dei servizi offerti dalle amministrazioni, la scarsa attenzione per la gestione delle risorse pubbliche, guidata più da logiche incrementali che da criteri di efficienza, hanno indotto, nell’ultimo ventennio, una riflessione (forse ancora superficiale) sul ruolo e la funzione della PA con una maggiore considerazione delle priorità e delle preferenze dei cittadini che sono i beneficiari ultimi della spesa.

I cittadini confidano, infatti, nel Pilastro centrale del nostro welfare state, costituito dall’art. 3, comma 2 della Cost. che prevede una capacità nel “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Una capacità di intervento che si è ridotta notevolmente negli anni e non solo per la mancanza delle risorse.

Proviamo, con questo contributo, ad indicare succintamente i nodi gordiani, antichi e mai sciolti definitivamente, che da tempo si osserva essere ostacoli alla modernizzazione sui quali fanno leva i tanti “gattopardi” che nelle pubbliche amministrazioni vivono di tensioni ostili al cambiamento.

Decentramento irresponsabile

Abbiamo decentrato i poteri e la capacità di spesa con la riforma del Titolo V, inseguendo una vocazione federale che avrebbe dovuto accrescere l’accountability, ma si è operato in maniera disorganica e per successive stratificazioni (l’empiricità irrazionale della ripartizione delle funzioni preconizzata – ante litteram – da Massimo Severo Giannini). Si è dimenticato di chiudere i centri di costo centrali in favore di quelli delle Autonomie locali, o di scegliere – responsabilmente – di mantenere i centri di spesa centrali ritenendoli più efficienti di quelli territoriali.

Oggi chi vota non riesce a capire chi abbia realmente danneggiato i conti di una regione o fatto fallire un comune, anche perché il legislatore si è spesso sentito in obbligo di apportare correttivi alle norme sugli enti locali per attenuare le responsabilità e ad allentare i vincoli (vedi termini presentazione bilancio o le norme sulle dismissioni delle partecipate).

Formalismo

Il pernicioso atteggiamento limitato alla regolarità delle procedure senza valutarne gli effetti che, alle volte, piuttosto che tradursi in risultati si risolvono in “conseguenze”. Ricordiamoci che abbiamo dovuto scrivere per legge che gli obiettivi assegnati (ai sensi del comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 150/2009) devono essere: specifici, misurabili, tali da determinare un significativo miglioramento della qualità dei servizi erogati e degli interventi. Un’ovvietà che non si riscontra nel settore privato e che mostra la mancanza di una cultura degli obiettivi e dei risultati, a vantaggio di un’attenzione crescente verso la forma e gli adempimenti formali.

Mancanza di cultura manageriale

E’ mancata una cultura manageriale a livello politico e a livello amministrativo. Si guarda alla fedeltà e non alla competenza, l’amministrazione vive spesso nel chiuso delle proprie stanze rifiutando – parafrasando Calamandrei – di indossare gli occhiali del miope. Non si può non registrare un indebolimento della classe dirigente che ha coinciso con una fuga dalle responsabilità, una ritrosia alla firma nel perseguire più la forma che i risultati, rinunciando ad aprire e ad aggiornare il proprio bagaglio di conoscenze e competenze.

Cosa fare?

La recente pubblicazione del Conto annuale sul personale delle pubbliche amministrazioni della Ragioneria Generale dello Stato, elaborato in collaborazione con il Dipartimento della funzione pubblica sui dati definitivi del 2017, fornisce informazioni strategiche per chi vuole riformare la PA o affrontarne i problemi. Per assumere decisioni positive si deve conoscere puntualmente la macchina, le sue risorse e le sue debolezze, non sottovalutarne le carenze ma nemmeno le potenzialità. Riformare la PA è accedere ad un cantiere sempre aperto avendo quale stella polare la famosa domanda di Luigi Einaudi: “Come si può deliberare senza conoscere?”.

L’analisi della macchina pubblica è caduta nell’errore di soffermarsi troppo sulla finanza e poco sulla dinamica dei processi; troppo sulle norme e sugli strumenti e troppo poco – quasi nulla – sulla valutazione di incentivi reputazionali per gli attori della PA per renderli veri protagonisti e non comparse.

Per questo può essere utile evidenziare alcuni dati del Conto annuale della Ragioneria Generale dello Stato, per riflettere su alcuni trend, sui loro impatti e sugli interventi necessari.

Qual è lo stato del “pubblico impiego”?

Meno addetti e più anziani. Il tempo indeterminato nel periodo di riferimento è sceso notevolmente, dai 3.145.000 del 2008 ai 2.947.000 del 2017. Circa 200 mila lavoratori in meno, espressione, prevalentemente, di uscite senza ricambi.

L’età media dei dipendenti della PA, di cui parliamo ormai da un po’ di tempo, aumenta inesorabilmente da tempo: dai 43,5 anni del 2001 al 50,6 anni del 2017. Inoltre, rispetto ad un’età media di 50,6 anni, spiccano il dato dei Ministeri (54,9), quello della Presidenza del Consiglio dei Ministri (54,8) e quello degli Enti pubblici (54,4). Nel 2022 nelle classi di età più elevate si concentrerà il maggior numero di lavoratori. Nella classe di età 65-67 anni verranno a trovarsi 273 mila dipendenti, che lascerebbero il servizio in meno di tre anni, e altre 621 mila unità nella classe precedente, 60-64 anni. Questo comporta un problema in termini di obsolescenza di competenze e di trasferimento di know-how specifico, ma al contempo potrebbe costituire un’occasione per costruire ex novo uno stato minimo, essenziale, che garantisca l’eccellenza nell’erogazione delle funzioni pubbliche, utilizzando strumenti come la digitalizzazione, arricchiti da nuove competenze e da risorse umane aggiornate, qualificate e flessibili.

I dati confermano, inoltre, l’indebolimento dell’amministrazione centrale. I ministeri hanno visto una riduzione dei propri dipendenti dai 181 mila del 2008 ai 145 mila del 2017. Probabilmente vi era un eccesso di dipendenti e il calo, in alcuni casi ha risposto ad un necessario ridimensionamento degli organici, in altri senza riorganizzazione e reclutamenti mirati, ha portato, invece, ad una riduzione dei servizi o al peggioramento degli stessi. Le amministrazioni centrali – purtroppo – non sono state oggetto né di processi di ristrutturazione (vedi mancato esercizio della delega della legge 124/2015) né di processi di digitalizzazione.

Anche Enti pubblici non economici (quali Inps ed Inail) hanno subito una profonda riduzione del personale alla quale hanno potuto far fronte solo con investimenti nelle ICT e coniugando riorganizzazione e digitalizzazione. Questo comparto è passato da 56.235 dipendenti del 2008 ai 40.736 del 2017, riuscendo al contempo ad aumentare le competenze e i servizi erogati. L’Inail, in particolare, ha registrato una riduzione del personale da 10.138 del 2008 al 8.090 del 2018, pari al 20%, ma è riuscito a migliorare l’efficienza e la produttività integrando la funzione dell’organizzazione con la information technology.

Il comparto “Regioni ed enti locali” ha registrato altresì una significativa variazione del personale stabile dipendente dai 514 mila addetti del 2008 ai 424 mila del 2017 (meno 17%). Anche questo dato dovrebbe portare ad una riflessione sull’organizzazione degli enti locali in Italia, che vede numerosi enti con sempre meno personale. Gran parte dei comuni sono di piccole dimensioni e si dovrebbe agire in maniera strutturale per l’accorpamento dei piccoli obbligando la gestione associata dei servizi; eppure la Consulta, con la recente sentenza n.33 del 2019, ha bocciato proprio la norma che stabiliva tali obblighi (art.14, c.28 del d.l. n.78 del 2010) perché espressione di politiche di spending review, miopi sotto l’aspetto della realizzabilità delle economie di scala e della dimostrabilità dei miglioramenti nell’erogazione dei servizi essenziali.

Difficilmente, però, i comuni potranno gestire le funzioni senza il necessario personale qualificato, né le importanti possibilità assunzionali previste oggi potranno consentire di rimpiazzare le vacanze via via create.

Per affrontare le complesse sfide dei prossimi anni (quali il calo demografico e crisi del welfare state, crisi fiscale, emergenza ambientale, rivoluzione digitale), le PA devono attrezzarsi in tempo e in maniera diversa dal passato. Per una buona programmazione dei fabbisogni non basterà rispettare le norme o avere le deroghe sulle assunzioni, occorrerà avere una visione della PA del futuro. Serve reinventare e ridisegnare e non banalmente sostituire. Occorre riscoprire le possibili sinergie tra pubblico e privato in una cornice condivisa di obiettivi.  Coinvolgere risorse private nella delicata gestione pubblica è essenziale, ma questo deve costituire un’opportunità di profitto per il mercato senza dimenticare gli interessi collettivi ed il fine ultimo del bene comune affidato.  Dare in concessione a terzi un bene o un servizio dei cittadini, ad esempio, è un atto di fiducia, come dare le proprie chiavi di casa a cui deve corrispondere sicurezza, benessere, ricavi congrui. Servono competenze qualificate e preparate nel definire partenariati e nel gestire gli acquisti in maniera efficiente ed efficace.

In sintesi, quali indicazioni provengono da questi dati?

Il calo dei dipendenti nelle amministrazioni centrali non ha portato a realizzare quel ridisegno organizzativo, necessario anche alla luce della riforma del Titolo V della Cost., e questo ci ricorda la vera sfida di oggi alla luce di quanto fino ad ora avvenuto: rafforzare un Centro storicamente debole, incapace di gestire sia le sfide sovranazionali sia quelle derivanti da un regionalismo di fatto differenziato.

L’attuale parcellizzazione delle autonomie locali appare non più sostenibile. Non basta assicurare la sostituzione dei dipendenti cessati. La dimensione di gran parte dei comuni (e di alcune regioni) costituisce un limite, sia per un buon reclutamento sia per assicurare i servizi fondamentali. L’obbligatorietà della gestione associata dei servizi e delle funzioni diventa necessaria, soprattutto se si tiene conto della debolezza dei bilanci dei governi locali sui quali spesso esercita la sua funzione, innanzitutto collaborativa, la Corte dei conti. Il ripetersi di decreti “salva comune” mostra il fallimento della gestione decentrata e locale e del sistema di monitoraggio e controllo da parte dell’amministrazione centrale.

L’esperienza di enti pubblici come l’Inail ci dimostra che non possiamo mantenere in vita i modelli organizzativi di 20 o 30 anni fa e che è possibile, coniugando riorganizzazione con digitalizzazione, fare di più con minori risorse, se meglio organizzate e qualificate. I dati del Conto annuale, quindi, ci dicono cosa fare e, a volte, anche come fare. Ogni decisione deve sempre muovere dalla convinzione che dobbiamo puntare sulle persone che popolano le PPAA, sulle loro volontà, disponibilità, relazioni e intelligenze messe a disposizione ed usate per assicurare servizi e interventi di vera qualità.

Altre importanti scadenze delle Pubbliche amministrazioni

Vi sono, inoltre, alcune scadenze nel mondo della PA, in prossimità dell’approvazione dei documenti di bilancio, tanto rilevanti quanto ignorate e sottovalutate, sia da parte degli amministratori sia da parte degli osservatori.

Una di queste riguarda la programmazione, con riferimento alla definizione degli obiettivi e al processo di valutazione. Si tratta di un momento centrale della governance di un Ente e non necessariamente connesso con l’erogazione del trattamento accessorio. Con la programmazione si orientano la macchina amministrativa, le risorse finanziarie e umane e si riesce ad attuare le politiche e a motivare le scelte.

Possiamo, però, dire che programmare, fissare gli obiettivi e valutare sono azioni che non appartengono al comportamento naturale dell’organo politico e del datore di lavoro pubblico. L’indebolimento della classe politica e amministrativa sta portando a far scomparire il ruolo di tali funzioni strategiche complice anche una trasformazione genetica della politica e delle modalità di conseguimento del consenso. L’attenzione al breve periodo e il rinvio delle scelte costose, in termini di bilancio, alle amministrazioni successive sta generando a tutti i livelli un “debito futuro”, finanziario e infrastrutturale, difficilmente colmabile con gli attuali scenari di crescita.

Quando ci si appresta ad approvare i documenti di bilancio, i vertici delle amministrazioni secondo calendario devono affrettarsi ad adottare i piani della performance e le direttive annuali ed aggiornare i sistemi di valutazione. Un’attività che la politica non può delegare alla dirigenza o ad un soggetto esterno, come ricordato da anni dagli articoli 4 e 14 del d.lgs. 165/2001. E’ questo il momento in cui la politica deve fissare gli obiettivi e indirizzare la macchina, altrimenti poi è inutile lamentarsi del fatto che l’amministrazione e la dirigenza non rispondono agli indirizzi dell’organo politico. La norma, raramente rispettata, prevede che tutto questo debba essere fatto ogni anno, entro dieci giorni dalla pubblicazione della legge di bilancio, mentre il Piano della performance, documento programmatico triennale, deve essere adottato entro il 31 gennaio.

A chi nomina i capi dipartimento o i direttori generali, (Ministro, Sindaco, Presidente, etc) spetta l’assegnazione degli obiettivi e il monitoraggio e la valutazione del raggiungimento degli stessi. L’assegnazione delle risorse per alcuni obiettivi piuttosto che per altri è una scelta politica e non un esercizio compilativo burocratico.

Senza quindi una valutazione seria, conseguente ad una corretta programmazione, anche banalmente per motivare la rotazione degli incarichi o la sostituzione dei dirigenti. Tutto altrimenti diventa aleatorio. Inutile, quindi, rendere, trasparenti una serie di moduli e schede astratte, se la pietra angolare della programmazione, l’individuazione delle priorità e la definizione e pesatura degli obiettivi, è delegata al valutato o ad altri e non è, invece, un momento di consapevolezza strategica dell’organo politico.

Il processo di deresponsabilizzazione dei soggetti protagonisti della governance rischia di essere sostenuto involontariamente da un legislatore poco attento, come è avvenuto in parte con il d.lgs. 74/2017, che ha affidato agli Organismi indipendenti di valutazione (OIV) gran parte di questi compiti, riducendo quelli tipici dell’organo di indirizzo politico e dell’amministrazione.

Gli uffici di gabinetto si sono a volte rivelati deboli rispetto a questi compiti, senza le competenze necessarie, dominati esclusivamente da una cultura giuridica; ciò ha impedito lo svilupparsi di una funzione di programmazione, monitoraggio e valutazione.

La valutazione, come detto, deve essere “vera” e di competenza del vertice dell’amministrazione, per questo motivo è bene spiegare la terzietà richiesta per gli OIV, alti organismi di supporto tecnico che non si sostituiscono ai silenzi della politica. Una tale surrogazione sarebbe una cura peggiore del male e non aiuterebbe a valorizzare i dipendenti del comparto pubblico allargato, lasciando – apparentemente – tali attività recluse in un recinto estraneo alla responsabilità politica.

La terzietà di cui parlò Adam Smith nella “Teoria dei sentimenti morali”, è legata alla figura di uno spettatore “imparziale”, una persona esterna che arriva e osserva quel che sta accadendo; considera le diverse persone coinvolte e i loro interessi. È un soggetto attento alla coscienza del merito, uno spettatore che sollecita la voglia di sentirsi degni di un premio, chi lavora deve voler essere apprezzato dallo spettatore imparziale.

Ciò che pensa lo spettatore imparziale è un tema a cui il decisore dovrebbe prestare attenzione: è un modo di introdurre il bisogno di impersonalità, il bisogno di compiere valutazioni morali andando oltre l’interesse personale. Uno “spettatore imparziale” potrebbe portare una nuova prospettiva in un ambiente viziato dalla condizione di persone che si trovano insieme al suo interno. Il valutatore indipendente misura il prodotto della P.A. in ragione dei bisogni e della capacità di soddisfare i desideri dei cittadini; è un personaggio esterno e, come tale, libero da ogni influenza autoreferenziale. Può, quindi, mettere al servizio dei vertici amministrativi esperienze di successo diverse ed a fattor comune culture dell’innovazione e del merito. Il risultato di altri può diventare patrimonio comune.

Non è facile certo obbligare i vertici politici e amministrativi a svolgere questa funzione – e a svolgerla bene -, ma da essa dipende il buon andamento della macchina, o meglio, il rendimento delle nostre istituzioni. Per questo è importante il rispetto dei tempi di adozione e l’attenzione ai contenuti dei documenti di programmazione. La funzione di supporto o di validazione nel ciclo di programmazione richiesta all’OIV non deve portare a sostituire il vertice politico amministrativo ma ad integrarlo, a supportarlo.

La politica programmi ed assegni obiettivi sfidanti, rilevanti per la collettività e misurabili, correlati con le finalità della spesa e degli interventi finanziati e non banalmente con le attività svolte dagli apparati. L’attuale ricerca del consenso politico, però, sembra premiare più la sagacia di un tweet o di un post, che la qualità e tempistica dei documenti di programmazione. Ricordiamo che l’art. 5 del d.lgs. 150/2009, che definisce la qualità degli obiettivi, è innanzitutto rivolto agli organi di indirizzo politico.

E’ triste dover pensare ancora una volta che, mentre si dimentica di recidere i nodi gordiani che da troppo tempo zavorrano il rilancio della macchina amministrativa pubblica, si pensi di ricorrere – ancora una volta – a (inutili) obblighi o a sistemi sanzionatori, per una funzione che dovrebbe essere naturale rispetto al ruolo e che è soprattutto essenziale per attuare le politiche pubbliche e per far funzionare le nostre istituzioni. La riforma, l’efficienza e il rendimento delle nostre amministrazioni e delle nostre istituzioni dipenderanno sempre più dalle competenze e da una cultura della responsabilità e meno dalle norme.

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