Una nuova stagione per la valutazione
Il termine valutazione dopo essere stato lungamente ignorato negli ambienti istituzionali italiani, si è progressivamente affermato nel lessico delle politiche pubbliche, anche se con fatica viene ricondotto a un significato univoco. L’auspicio che qui si propone è che l’ondata di valutazioni che nel bene e nel male discenderà dalle due riforme sommariamente evocate (8mila PA e 300mila EPR) possa rappresentare un’opportunità formidabile per aprire un vero e proprio cantiere della valutazione in Italia
25 Gennaio 2018
Adriano Scaletta, Responsabile della valutazione della Performance, ANVUR - Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca
Il termine valutazione dopo essere stato lungamente ignorato negli ambienti istituzionali italiani, si è progressivamente affermato nel lessico delle politiche pubbliche, anche se con fatica viene ricondotto a un significato univoco. Il dominio giuridico della gestione della cosa pubblica in Italia ha annacquato questa pratica sconosciuta, mescolandola o identificandola tout court con il controllo.
Ma anche la cultura aziendalista, che negli ultimi vent’anni si è eretta ad antagonista dell’egemonia giuridica, ha replicato spesso tale confusione. L’attenzione si è spostata infatti sulla trasmissione dei principi manageriali, sulla definizione degli obiettivi e sulla conseguente costruzione di cruscotti di indicatori per misurare il livello di corrispondenza tra quanto programmato e quanto realizzato. Le interferenze, gli imprevisti, ma soprattutto il contesto di norme e vincoli in cui opera la PA, di rado sono stati contemplati come fattori incisivi nella valutazione dell’efficienza degli uffici o dell’efficacia degli interventi, finendo inevitabilmente per essere considerati qualcosa di molto simile al “rumore”. La conseguenza, inevitabile, è l’abbinamento scoraggiante tra valutazioni positive e risultati impalpabili.
In Italia, dunque, dagli anni Novanta si è accesa la contesa tra le due fazioni, generando delle ambiguità rilevabili nelle leggi stesse, come risultante degli attacchi sferrati dagli aziendalisti (forti del fascino che il management esercita sulla politica) e della difesa operata dagli uffici legali (cui spetta l’ultima scrittura dei testi).
Tra gli oggetti della contesa ovviamente è finita anche la valutazione, rispetto alla quale paradossalmente i due approcci convergono nella convinzione che essa debba confrontarsi con un punto di riferimento inconfutabile, da una parte identificato con la sacralità della norma e dall’altra con l’oggettività della misura. Ed è proprio questa comune visione a sancire l’inevitabile fallimento della valutazione.
Si prendano ad esempio le recenti riforme che stanno interessando due soggetti protagonisti della gestione pubblica, il cui operato necessita di essere valutato in relazione all’impatto generato, specialmente in tempi di contrazione della spesa. Il riferimento è alle leggi delega 124/15 “in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” e 106/20 “per la riforma del Terzo settore”. La prima ha delegato il Governo a provvedere tra le altre cose proprio alla “razionalizzazione e integrazione dei sistemi di valutazione, anche al fine della migliore valutazione delle politiche” (art.17), il quale ha risposto con il d.lgs. 74/17 che ha modificato la disciplina sulla performance (la cosiddetta “Brunetta”). Dalla seconda invece sono discesi, ancora nell’estate del 2017, il d.lgs. 117/17 (“Codice del Terzo settore”) e il d.lgs. 112/17 (in materia di “impresa sociale”), che richiedono la valutazione dell’impatto sociale generato da tutti coloro che vogliono essere riconosciuti come ETS (Enti di Terzo Settore).
Oltre all’enfasi posta sulla valutazione degli impatti delle PA e degli ETS, entrambe le norme affermano il principio del coinvolgimento attivo dei cittadini. In estrema sintesi, i due provvedimenti prevedono la valutazione degli effetti generati da attività finalizzate al perseguimento dell’interesse generale, coinvolgendo le persone su cui tali interessi si concentrano specificatamente o generalmente. Il soggetto che dichiara – e che quindi è responsabile di tali attività – è in un caso la PA, nell’altro l’ETS o a limite entrambi (in partnership, secondo il principio di sussidiarietà orizzontale sancito dall’art.118 della Costituzione).
È evidente che proprio l’interesse generale rappresenta il terreno comune tra PA ed ETS e che il concetto di impatto evocato dalle norme è strettamente ancorato alle intenzioni manifeste del soggetto che pianifica e realizza attività con finalità pubbliche. In entrambi i casi la visione di fondo è che i processi sociali siano mossi da nessi causali di tipo “sequenziale” (input-process-outputoutcome- impact), da cui discende inevitabilmente l’idea che il cambiamento può essere valutato solo osservando il passaggio da uno stato all’altro. Valutare, in sostanza, significa misurare l’“effetto netto” generato dall’azione mossa dal soggetto proponente.
Nella letteratura anglosassone sulla valutazione – che da molto più tempo di noi si interroga sulle problematiche connesse ai processi valutativi – avanza invece una visione alternativa secondo cui l’unica causalità rinvenibile nei processi sociali è di carattere “genetico”, proprio per l’unicità con cui ogni situazione si presenta nel tempo e nello spazio. Il cambiamento in questo caso si distingue dalla semplice misurazione e coincide con l’osservazione (e l’ascolto) delle conseguenze generate su una pluralità di soggetti da un determinato meccanismo innescato da un intervento pubblico. Per la causalità sequenziale l’origine del cambiamento è esterna e corrisponde agli input immessi nel sistema (il trattamento, il programma, la politica), mentre per la causalità genetica è interna, perché è la sintesi delle reazioni (non necessariamente prevedibili, né intenzionali) dei vari soggetti coinvolti nell’intervento pubblico. Per dirla con Nicoletta Stame, ciò significa che “invece di studiare se è il programma che funziona, bisogna cercare di capire cosa c’è in un programma che lo fa funzionare per determinati soggetti e in determinati contesti”.
Per concludere, la suggestione che si sta qui proponendo è che le due culture dominanti e in conflitto tra loro condividono in realtà la comune concezione di una causalità di natura deterministica, che è alla base della ricorrente confusione tra valutazione e controllo. E probabilmente è anche per questa ragione che finora, nonostante le intenzioni, non si è mai considerata fino in fondo la “voce” delle persone. Ma si tratta anche di un invito (e di un auspicio) affinché l’ondata di valutazioni che nel bene e nel male discenderà dalle due riforme sommariamente evocate (8mila PA e 300mila EPR) può rappresentare un’opportunità formidabile per aprire un vero e proprio cantiere della valutazione in Italia. In questo scenario si consideri altresì l’impatto sulla programmazione e sulla valutazione delle politiche pubbliche che potenzialmente può avere la rivoluzione digitale dei big e open data, fornendo strumenti tecnologici di rilevazione e di ascolto delle reazioni e delle opinioni dei cittadini.
Per evitare nuove illusioni è necessario che questo cantiere rifugga da approcci verticistici e centralistici e poggi al contrario su basi pluraliste, spostando l’attenzione dalle caratteristiche “date” del soggetto protagonista dell’intervento (sia esso PA o EPR) e dalla qualità (intesa come rispondenza a standard, modelli o principi di legge) delle azioni e dei programmi (degli obiettivi, degli indicatori, dei target), per capire invece cosa davvero funziona, per chi, dove e in quali circostanze.