Una PA attrattiva per un buon reclutamento

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Negli ultimi anni la PA ha reclutato male, sia per il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato sia per la scarsa sensibilità sul tema. Ora le sfide e gli obiettivi che abbiamo davanti ci dovrebbero far capire che abbiamo bisogno di culture nuove e professionalità dotate di competenze trasversali e non solo specialistiche. Inoltre, se dedichiamo grande importanza al reclutamento di nuove competenze, non dobbiamo dimenticare il personale in servizio

18 Febbraio 2022

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Francesco Verbaro

Presidente FormaTemp

Photo by Arlington Research on Unsplash - https://unsplash.com/photos/WMdtbsQ5ouA

Il reclutamento è uno dei processi più importanti per un’azienda, in quanto anche con la massima automatizzazione l’importanza della qualità e professionalità del capitale umano rimane essenziale. Oggi più che mai diventano centrali le competenze, di settore e trasversali, se consideriamo i continui e repentini cambiamenti ai quali le organizzazioni sono oggi sottoposte.

L’accesso in un’organizzazione non è (solo) un atto formale, ma un processo a cui occorre porre la massima attenzione. Questo non è mai emerso nella PA, che ha assunto secondo procedure che testano le conoscenze, ma non le competenze e basandosi prevalentemente, almeno negli ultimi 50 anni, sull’attrattività del posto fisso. Ma nell’era della great resignation e del lavoro agile non può essere certamente la PA il miglior datore di lavoro. Il lavoro nella PA per molti non si configura più come il lavoro fisso, ma come il lavoro ‘morto’ soprattutto se pensi che lo dovrai fare per più di 40 anni, alla luce dell’allungamento dell’aspettativa di vita e dell’adeguamento conseguente delle norme in materia di pensioni.

Negli ultimi anni la PA ha reclutato male, sia per il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato sia per la scarsa sensibilità sul tema. Nel frattempo, ha utilizzato vecchie graduatorie, i lavoratori a termine che poi è stata costretta a stabilizzare, o ha ricorso a leggi speciali, con scarsa attenzione ai profili e alle competenze. L’attenzione esclusiva ai ricorsi ha inoltre impedito di rivolgere la giusta attenzione a come intercettare il capitale umano e le skill che servono.

Fare oggi dello Stato un employer of last resort, come chiedono alcuni, forse potrebbe aiutare nel breve l’occupazione giovanile, ma non farebbe altro che danneggiare ulteriormente la nostra PA che in passato ha spesso svolto il ruolo di ammortizzatore sociale, rispetto ad un mercato del lavoro asfittico. Negli anni ‘70 con la legge 285 del 1977, ma anche dopo con leggi speciali nazionali e regionali in deroga al concorso pubblico e da ultimo con le stabilizzazioni dei cosiddetti precari, ben quattro ‘sanatorie’ negli ultimi 15 anni, o le assunzioni degli LSU (lavoratori socialmente utili). Comunque, degli evergreen se guardiamo l’ultima legge di bilancio. Tutto ciò ha contribuito a peggiorare l’immagine e l’appeal della PA come datore di lavoro, importanti per attrarre i migliori talenti.

Quale motivazione, quale engagement e quali attitudini potremo avere se il reclutamento è guidato dal bisogno o dalla certezza del posto? In tutte le classifiche sul best employer of choice raramente troviamo una PA, se non la Banca d’Italia. Inoltre, nei fattori che portano a valutare un datore di lavoro come eccellente vi sono i seguenti elementi: percorsi di aggiornamento e formazione, welfare aziendale, brand reputation, equità e proporzionalità nelle politiche retributive, opportunità in termini di percorsi di carriera e di specializzazione. Assenti nella nostra amministrazione. Nell’ultimo rapporto sulla “PA vista da chi la dirige” (PromoPa), sono gli stessi dirigenti a dire che l’immagine e la reputazione della PA sono peggiorate negli ultimi dieci anni (80%), che non hanno mezzi per svolgere il proprio ruolo (60%) e che non sono incentivati ad introdurre innovazioni (80%). Per quale motivo quindi si dovrebbe scegliere di lavorare nel settore pubblico? Per il ‘posto fisso’, direbbe qualche comico.

Le sfide e gli obiettivi che abbiamo davanti ci dovrebbero far capire che abbiamo bisogno di culture nuove e professionalità dotate di competenze trasversali e non solo specialistiche, che il mercato del lavoro italiano offre. Pertanto, è sbagliato dire, soprattutto in questo momento, che occorrono tanti giovani laureati: 300 o 500mila giovani laureati. Numeri ingiustificabili, se teniamo conto dei processi di riorganizzazione e digitalizzazione in corso e ancora da realizzare nel settore pubblico. I giovani laureati sovente non hanno esperienza lavorativa e pertanto sono deboli nelle competenze di settore e ancor più carenti di competenze trasversali, che si formano innanzitutto con le esperienze di lavoro. La PA a sua volta non è in grado di prevedere percorsi di formazione, con tirocini, tutor e formatori interni, esperienze sul campo anche presso aziende private e altre PA. Il c.d. onboarding non viene realizzato e lasciato al fai da te del singolo neoassunto. Né tanto meno è in grado di utilizzare il periodo di prova. Il corso concorso o il contratto di formazione lavoro, oggi marginali, potrebbero essere degli strumenti validi, se aggiornati, al fine di assicurare un capitale umano qualificato. Inoltre, dato il profilo strategico del reclutamento, sarebbe il caso, come fanno oggi le grandi imprese, di investire in academy, nelle collaborazioni con le università o negli ITS. In quest’ottica si colloca la disposizione contenuta nella legge di bilancio che finanzia cento borse di studio per «promuovere e orientare le scelte professionali dei giovani verso le pubbliche amministrazioni e il lavoro pubblico». Servirebbe inoltre istituire scuole della PA specialistiche, orizzontali, per funzioni strategiche: sulla gestione del procurement e appalti, sulla programmazione e contabilità o sulla gestione dei fondi UE.

Per migliorare il reclutamento, oltre a rafforzare la consapevolezza di quali competenze servono e di cosa c’è sul mercato, la PA dovrebbe raccogliere più informazioni attraverso i bandi di concorso sul mercato del lavoro di riferimento e su quello potenziale, per capire chi è interessato a lavorare per l’amministrazione pubblica: se ha mai lavorato, quali lavori ha svolto e per quanto tempo, le attitudini, se è disoccupato o neet e da quando. Persino informazioni come l’età, il genere e i titoli di studio o la provenienza non vengono elaborati ed esaminati. Tutte informazioni basilari oggi per mirare e migliorare quindi le procedure di reclutamento e conoscere il proprio mercato di riferimento. I concorsi, inoltre, non si migliorano semplificandoli, senza capire se sto mappando conoscenze o anche le competenze e che soprattutto trattandosi di cose diverse vanno rilevate e valutate con metodi diversi.

Le criticità emerse in alcuni concorsi realizzati dal Formez non sono stati analizzati, ma immediatamente nascosti. I test inizialmente predisposti si sono rivelati altamente rigorosi per la platea che si è presentata agli esami, al punto da selezionare (fatto raro nel settore pubblico) meno persone dei posti messi a concorso. Gli ultimi dati ci dicono che i partecipanti al concorso non sono dei neolaureati, ma persone che hanno provato altre esperienze anche di lavoro privato o autonomo e che scelgono il ‘pubblico’ perché il contesto economico li spinge a cercare la certezza economica. Una storia che caratterizza il nostro reclutamento da sempre. Il 60-70% dei partecipanti al concorso sono del sud e delle isole, hanno in media 35-40 anni e con l’esigenza o convenienza a rimanere nelle loro regioni di residenza. La PA non attrae gli uomini del Nord, ma uomini e donne del Sud. I laureati degli ultimi dieci anni sono più donne che uomini e il loro inserimento nel mercato del lavoro è caratterizzato da tanti gender gap (retribuzione, carriere, part time involontario) e pertanto più interessate al ‘posto’ pubblico. Certamente da un’indagine sui giovani laureati emerge come i più bravi considerino il lavoro pubblico non attraente e aspirino a lavorare in posti moderni, qualificanti e agili (FormaTemp). I più bravi con dieci anni di esperienza, quelli che servirebbero alle pubbliche amministrazioni per spendere oltre 340 mld in 7 anni (risorse mai spese dalle nostre istituzioni), hanno sul mercato del lavoro retribuzioni che i contratti collettivi della PA non riescono ad assicurare. Bene, quindi, la disposizione contenuta all’art. 3 del dl 80/2021 che prevede che la contrattazione collettiva debba individuare un’ulteriore area per l’inquadramento del personale di elevata qualificazione. Benissimo la previsione dell’art. 2 dello stesso decreto-legge che consente, con uno specifico fondo alle pubbliche amministrazioni, di poter attivare specifici progetti di formazione e lavoro per l’acquisizione, attraverso contratti di apprendistato anche nelle more della disciplina dei rispettivi contratti collettivi nazionali di lavoro, di competenze di base e trasversali, nonché per l’orientamento professionale di diplomati e di studenti universitari.

L’accesso in un’organizzazione come la PA, inoltre, non si esaurisce nel concorso, c’è molto prima, in termini di campagne di promozione, analisi del mercato, verifica delle competenze necessarie e progettazione dei test, e molto dopo, in termini di periodo di prova, formazione di ingresso, onboarding ed engagement.

Usare la PA per assumere i giovani disoccupati pregiudicherebbe il buon funzionamento dell’amministrazione e i destini della nostra next generation. Se vogliamo una nuova PA, che sia in grado di assicurare un intervento pubblico di qualità e di spendere i miliardi di euro del PNRR e dei fondi UE, il reclutamento dovrà essere inderogabilmente di qualità.

Infine, se dedichiamo grande importanza al reclutamento di nuove competenze, non possiamo inoltre dimenticare il personale in servizio. Oltre 3 milioni di dipendenti distribuiti tra migliaia di amministrazioni, molto diverse tra loro.

In un’organizzazione spesso ‘trascurata’ come la PA, abbiamo diverse fattispecie organizzative che non possono essere sintetizzate solo in termini di età e genere o territorialità. Se dedichiamo grande importanza al reclutamento di nuove competenze, non possiamo dimenticare e trascurare il personale esistente già in servizio, il quale è naturalmente eterogeneo ma che è frutto inevitabile della tipologia del reclutamento (ha fatto un concorso serio!) e dei percorsi lavorativi (ha lavorato presso o con).

Dobbiamo imparare ad occuparci del personale in servizio e considerarlo ‘capitale umano’, imparando a investire e a mantenerlo skilled e qualificato. Per questo dobbiamo innanzitutto imparare a conoscerlo, verificando periodicamente il grado di conoscenze e competenze acquisite anche per colmare il gap registrato tra le competenze richieste e quelle presenti.

L’assunzione così come l’accesso ai livelli superiori di carriera sono i momenti di massima attenzione al capitale umano di un’organizzazione.

Questo articolo è tratto dall’Annual Report 2021 di FPA (disponibile online gratuitamente, previa registrazione)

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