Il valore della comunità nella prospettiva ecologica: verso una sostenibilità integrale
Per affrontare le sfide globali, occorre promuovere una visione di “sostenibilità integrale” che vada oltre la riduzione degli sprechi e che valorizzi appieno le risorse disponibili, promuovendo al contempo la “fioritura umana” e il rafforzamento delle comunità
29 Gennaio 2025
Paolo Venturi
Direttore AICCON Research Center Università di Bologna
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Foto di Guillaume de Germain su Unsplash - https://unsplash.com/it/foto/globo-da-scrivania-blu-e-bianco-sul-campo-di-erba-verde-durante-il-giorno-6Xw9wMJyHus
“Questo articolo è tratto dal capitolo “Sviluppo sostenibile” dell’Annual Report 2024 di FPA (la pubblicazione è disponibile online gratuitamente, previa registrazione)”
La sostenibilità oggi non può più limitarsi al superamento delle logiche del PIL: le trasformazioni in corso ridisegnano il contesto dell’economia e delle politiche, costringendo le istituzioni a generare valore senza impatti negativi su ambiente e giustizia sociale. Questo percorso di cambiamento, che si presenta ormai come irreversibile, richiede tuttavia un approccio integrale e non semplicemente strumentale. Le buone intenzioni non sempre conducono a buone azioni; la crisi ecologica in cui ci troviamo non si risolve solo con leggi, incentivi o risorse economiche per investimenti. Serve invece una riflessione profonda sul senso delle nostre azioni, sia nel presente che nel futuro.
L’orizzonte della sostenibilità, infatti, non deve essere adattativo, ma trasformativo, in linea con i cambiamenti radicali che stiamo vivendo. Ciò significa adottare una visione dinamica, che sappia osare nel costruire il futuro, guidata da una motivazione ideale capace di plasmare la realtà, economica e sociale. Questa prospettiva è particolarmente rilevante in un momento in cui, grazie al PNRR, l’Italia ha l’opportunità di realizzare consistenti investimenti su digitalizzazione e transizione verde: due settori indispensabili per immaginare “il dopo”. Tuttavia, una società più connessa non è automaticamente più umana, e un’economia più ecologica non è per forza più inclusiva o comunitaria. Per superare questa contraddizione, è necessario abbandonare l’idea di una sostenibilità “fredda” e distaccata dalla comunità. Questa visione rischia di limitarsi a ottimizzare processi produttivi, senza coinvolgere il capitale sociale e senza stimolare la reciprocità tra le persone. Se è vero che è urgente decarbonizzare e accelerare la transizione digitale e l’uso di energie rinnovabili, è altrettanto essenziale includere chi è meno capace di sostenere i costi di queste transizioni. Nel contesto della transizione energetica, ad esempio, è emersa una nuova forma di ingiustizia sociale: la povertà energetica, che colpisce circa 2,3 milioni di famiglie italiane. Questa nuova vulnerabilità si aggiunge a povertà già inaccettabili, come quelle educative e minorili, che coinvolgono il 13,8% dei bambini e adolescenti.
Per affrontare tali sfide, occorre promuovere una visione di “sostenibilità integrale” che vada oltre la riduzione degli sprechi e che valorizzi appieno le risorse disponibili, promuovendo al contempo la “fioritura umana” e il rafforzamento delle comunità. Questo approccio amplia lo spettro dello sviluppo sostenibile, introducendo accanto alle dimensioni ecologica, economica e sociale, una quarta dimensione: quella antropologica, che privilegia l’auto-organizzazione e la cooperazione come strumenti per prendersi cura dell’ambiente e della società. Questo “salto di scala” comporta una revisione della catena del valore e dei modelli di governance alla base delle decisioni pubbliche. La sostenibilità, intesa in senso integrale, non può limitarsi a promuovere i beni privati e pubblici, ma deve includere anche i beni comuni.
Tra i beni comuni, la salute ha dimostrato di essere cruciale: la pandemia ci ha insegnato che il benessere di ciascuno dipende da quello di tutti gli altri. La salute, in questo senso, è un bene comune globale da gestire come tale. La politologa americana Elinor Ostrom aveva già anticipato questo principio nel suo celebre Governing the Commons del 1990, in cui sosteneva che i beni comuni non possono essere gestiti secondo logiche privatistiche o pubblicistiche, ma necessitano di un approccio comunitario. Questo approccio suggerisce che il modello di riferimento non debba essere il tradizionale bipolarismo “Stato-Mercato”, ma un modello tripolare “Stato-Mercato-Comunità”, in cui tutti e tre gli attori interagiscano in modo paritetico nella co-programmazione e co-progettazione.
Questa sfida riguarda in modo particolare gli oltre 360mila enti del Terzo settore, dell’economia sociale e civile. Non solo perché rappresentano il pilastro comunitario, ma soprattutto per la capacità di coniugare la produzione di beni e servizi con la creazione di beni relazionali e forme di mutualismo, che oggi costituiscono un valore territoriale essenziale. La diversità settoriale e l’eterogeneità giuridica del Non Profit (che include associazioni, fondazioni, imprese sociali e reti) rappresentano una risorsa preziosa per alimentare processi di rigenerazione e innovazione sostenibile. Questi processi si manifestano nelle periferie delle città, nelle aree interne, nelle politiche di contrasto alla povertà e nelle soluzioni di welfare di prossimità.
In tutte queste esperienze il Terzo settore non è solo un attore, ma un testimone della rilevanza del “Terzo Pilastro” nella costruzione di un’ecologia integrale. La promozione delle organizzazioni della società civile non è un optional, ma una necessità: la sostenibilità o è integrale o non lo è. In questa prospettiva, abbiamo bisogno di ridisegnare l’arena in cui operano economia, politica e società. Ogni crisi richiede un cambiamento, e quanto più essa è profonda, tanto più il cambiamento deve essere radicale. Tuttavia, questo cambiamento non può essere realizzato attraverso fughe solitarie e separate (il Terzo settore da un lato, l’impresa for profit e la PA dall’altro), ma richiede un’intensa collaborazione tra gli attori, una maggiore interdipendenza e una nuova ecologia capace di coniugare inclusione e competitività. Le recenti emergenze ambientali hanno dimostrato quanto sia vitale questa capacità di cooperazione. Si è infatti attivata una potente intelligenza collettiva, che ha mobilitato risorse e competenze per costruire soluzioni di mutualismo comunitario e innovazione sociale. Questa reazione, che potremmo definire una “eccedenza”, è frutto di un’alchimia unica su cui è importante riflettere e che non possiamo permetterci di perdere. Dai territori è emersa non solo una risposta emergenziale, ma anche la genesi di nuove istituzioni, imprese, reti e modelli di governance sperimentali, che si sono riuniti intorno a una rinnovata coscienza di luogo.
I territori, infatti, non sono solo spazi geografici, ma entità viventi, frutto di un dialogo costante tra capitale naturale e socioeconomico. Essi esistono grazie alle relazioni e agli scambi che vi avvengono e richiedono cura e consapevolezza, poiché la cooperazione è un atto di mutuo interesse. Immaginare un futuro migliore significa realizzare una territorializzazione profonda, una densificazione della geografia culturale e delle istituzioni comunitarie. Questo processo include imprese, banche, fondazioni, cooperative e reti, poiché solo la presenza del “Terzo Pilastro” – come lo definisce Raghuram Rajan – può garantire un ordine sociale diverso, basato su beni relazionali e comuni e sull’espressione delle aspirazioni delle comunità. Prima ancora di ridefinire la catena del valore, è necessario includere le comunità intraprendenti nel paradigma dello sviluppo, non lasciandole ai margini. Basta con le soluzioni imposte dall’alto, che rischiano di arrivare già stanche, prive di reale adattabilità ai bisogni locali. In questa prospettiva, diventa fondamentale la missione del Terzo settore di territorializzare la cura e gli investimenti sul welfare, diventando un punto di riferimento per la propria comunità. Il futuro del Terzo settore, come ha ricordato anche Giuseppe De Rita, non può dipendere esclusivamente da normative favorevoli, ma deve basarsi su un desiderio autentico e condiviso di un domani migliore.
In sintesi, una visione ecologica autenticamente integrale rappresenta una prospettiva ambiziosa e complessa che richiede un cambiamento di paradigma profondo. Solo attraverso un approccio integrato, che includa l’interazione tra Stato, mercato e comunità, e che valorizzi i beni comuni e le relazioni sociali, sarà possibile affrontare le sfide globali.