Chi si occuperà del lavoro al tempo della sharing economy?
“Il lavoro delle macchine, macchine da lavoro” è l’approfondimento di Erika Munno, ricercatrice per il progetto Spazio Lavoro, che indaga le nuove forme d’impresa e le trasformazioni dell’economia contribuendo ad alimentare il dibattito attorno al tema della Jobless society. Qui alcuni punti di riflessione da approfondire verso FORUM PA 2016.
20 Aprile 2016
Erika Munno
Cosa c’è di
diverso tra la nostra epoca e il passato?
La storia dell’umanità non è nuova a certe problematiche
o criticità legate all’uso delle macchine sul lavoro o nella vita privata,
tuttavia, i cambiamenti tecnologici nella nostra età sono molto diversi da
quelli del passato, innanzitutto perché sono sempre più veloci e dirompenti, al
punto che potremmo dire che stiamo vivendo l’epoca della digital disruption[1],
cioè quella in cui il cambiamento tecnologico e le trasformazioni radicali sono
variabili costanti e non imprevedibili del sistema. Il tempo e lo spazio, infatti,
sono due concetti messi in crisi proprio dalla tecnologia digitale e questo
rende certi cambiamenti molto più pervasivi di quanto non accadesse in passato,
necessitando anche di un altrettanto repentina risposta di adattamento o
accoglimento dell’innovazione. Un altro elemento nuovo rispetto alle passate
rivoluzioni tecnologiche è il rapporto tra uomo e macchina; se prima era di
tipo complementare, cioè i dispositivi erano un ausilio dell’uomo e non
sostituti, oggi, invece, ci stiamo avvicinando sempre più al momento in cui,
molte attività umane, saranno radicalmente sostituite dalle macchine.
In questo scenario, da molti descritto come
apocalittico, sono emerse sostanzialmente due visioni: quella dei tecno-ottimisti,
che vedono la tecnologia come uno strumento non solo di liberazione dell’uomo
dalle fatiche, specie quelle fisiche o più routinarie, ma anche come leva di
sviluppo innovativo. Alcuni giungono addirittura a creare scenari utopici in
cui il tempo libero sarà superiore a quello che useremo per lavorare e proprio
per questo si potrà liberare la creatività umana per realizzare progetti nuovi.
In questo senso, già nel 2010, Clay Shirky[2],
aveva ipotizzato l’uso del tempo libero come un vantaggio sociale generale
utilizzabile per grandi progetti collettivi; per dimostratore la sua teoria,
calcolò che con il numero di ore che i cittadini americani passando davanti
alla TV ogni anno, circa 200 miliardi di ore, si potrebbero creare circa 2000
Wikipedia. All’opposto dei tecno-ottimisti siedono, invece, i tecno-scettici, cioè
coloro che mettono in luce soprattutto i rischi futuri del radicarsi della
tecnologia digitale. In questa visione distopica la tecnologia sarà, invece,
una delle cause di disoccupazione e impoverimento, soprattutto di quelle classi
sociali più svantaggiate e che principalmente, si suppone, verranno colpite
dall'”effetto sostituzione” delle macchine. Alcuni studiosi, a
questo proposito, stanno già provando a stimare la misura del fenomeno, ad
esempio Carl Benedikt Frey e Michael A. Osbornee[3], sostengono che nei prossimi 10 anni il
47% dei lavori negli USA, quindi oltre 700 diversi mestieri, scomparirà.
Nell’età della robotica e degli algoritmi ha ancora senso parlare di lavoro?
Sì. Qualsiasi sia la posizione che si vuole sposare,
non c’è dubbio che tra gli impatti più significativi e le sfide più ardue che
dobbiamo affrontare, quella della metamorfosi del lavoro appare davvero molto
importante, urgente e delicata. Uno dei motivi è di natura personale e umana poiché il lavoro è uno degli
elementi costitutivi delle nostre vite. Ma il lavoro ha anche una fondamentale
connotazione sociale e politica (nel senso alto di valori e visione), infatti,
è stato, ed è, uno dei fattori che ha influenzato la creazione d’intere
strutture sociali, si pensi a quanto è stato determinante per la nascita dei partiti
politici o dei sindacati, costituitisi attorno alle battaglie per i diritti dei
lavoratori proprio a seguito della Prima Rivoluzione Industriale. Il lavoro,
dunque, è il motore della nostra società e trae la sua alimentazione dall’economia e dal mercato, cioè dalle innovazioni imprenditoriali o dai cambiamenti dei bisogni dei consumatori. Se anche solo uno di questi elementi
cambia radicalmente, c’è necessità di reinventare tutto il sistema, cioè di
riprogettare il rapporto tra i diversi attori e settori della società per
creare, o quantomeno tendere, a un nuovo equilibrio. Dunque il lavoro consente alle società di esistere e
rappresenta il legame tra presente e futuro, perché è il modo attraverso cui
imprimiamo e radichiamo noi stessi nel mondo.
Chi sono i
soggetti che devono affrontare questo cambiamento e cosa devono fare?
I soggetti che principalmente dovrebbero occuparsi
delle trasformazioni in atto sono tre: le imprese, i lavoratori e lo Stato. Le prime dovrebbero farlo perché è nella loro natura,
il DNA dell’impresa e dell’essere imprenditore è quello di innovare e portare
nuove soluzioni, più sostenibili e sempre più moderne, nel mercato. In secondo luogo la responsabilità del cambiamento
spetta ai lavoratori che devono dotarsi delle capacità e delle competenze
adatte, in particolare quelle legate al digitale, le cosiddette e-skill. Dunque la formazione, non solo
dei giovani ma anche dei lavoratori adulti, è centrale e diventa uno dei
capisaldi del processo di apprendimento permanente cui le innovazioni costanti
e repentine ci stanno abituando. Il rischio è, infatti, quello di essere tagliati
fuori dal mercato del lavoro, specialmente per quei lavoratori che si trovano
nelle posizioni a rischio, cioè quelle più facilmente “sostituibili” per via
del carattere routinario e di bassa specializzazione.
Infine è lo Stato che deve occuparsi dell’economia e
allo stesso tempo, poiché sono complementari e strettamente connessi, del
lavoro. Uno degli strumenti attraverso cui farlo sono le politiche pubbliche,
perché consentono di trasporre idee e visioni, approcci e possibili teorie, in
piani operativi, coinvolgendo il maggior numero di soggetti, sia pubblici sia
privati. In particolare, nel caso della tecnologia, essendo un fenomeno che
impatta e coinvolge l’intero ecosistema sociale, non si dovrebbe parlare di una
politica pubblica singola, ma di politiche al plurale nel senso di assumere la
tecnologia come vincolo e parametro di tutte le decisioni pubbliche, da quelle
sulla scuola, all’economia, alle pensioni e così via.
Come portare questi temi all’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori?
Sembrerà banale ma il primo passo è parlarne. Una delle leve fondamentali del cambiamento, infatti, è la pressione cioè la spinta della società, in forma sempre più ecosistemica e collaborativa, alla trasformazione. Anche se spesso ci sembra di contare poco, soprattutto per la politica, la nostra voce è fondamentale. Non a caso infatti, il ciclo di una politica pubblica inizia sempre con l’agenda setting, cioè quella fase in cui certe questioni e problemi s’inseriscono nel dibattito pubblico e, attraverso i media in particolare, entrano nell’agenda istituzionale dei “palazzi”. Ne è un esempio il modo in cui è nata la proposta di legge sulla sharing economy, presentata alla Camera dei deputati, la cui prima firmataria è l’On. Tentori, che si occupa di regolamentare proprio la cosiddetta economia delle piattaforme, un fenomeno che, da tema di nicchia si è conquistato sempre più spazio sui giornali e nella società. Tuttavia, come già qualcuno sottolinea [4], la proposta di legge affronta i problemi del cambiamento del paradigma del lavoro in modo ancora troppo timido. A questo proposito, però, proprio la consultazione pubblica avviata sulla proposta potrebbe essere un ottimo momento per affrontare queste criticità e portare la “questione tecnologica” e i suoi impatti sul lavoro con più forza nel dibattito pubblico, come emerso durante i lavori del Tavolo “Piattaforme della Sharing Economy”. Il nostro Jobless Society Forum, momento di scrittura di proposte e suggerimenti proprio per il disegno di legge organizzato in questi giorni da Fondazione Feltrinelli, continuerà a lavorare su questa linea.
Una canzone de Le Luci recita “non c’è alternativa al futuro”, quello che possiamo fare allora è prepararci bene e per tempo ad affrontarlo, facendo le formiche piuttosto che le cicale!
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A FORUM PA 2016 non perdete il workshop: Sharing City, dalla visione alle realtà. Esperienze e soggetti dell’economia collaborativa a confronto sulla proposta di legge, in programma il 25 maggio dalle ore 15 alle 18.
[1] Termine
coniato da Clayton Christensen, professore di Harvard, per descrivere l’impatto
e gli effetti di una nuova tecnologia, sul modello di business preesistente.
[2] Per un
approfondimento cfr. C. SHIRKY, Surplus cognitivo. Creatività e Generosità
nell’era digitale, Codice edizioni, Torino 2010
[3] Cfr. Benedikt Frey C. e Osbornee M.
A. TECHNOLOGY AT WORK. The Future of Innovation and Employment, Oxford Martin School, febbraio 2015
[4] Per un
approfondimento si veda “Proposta di legge sulla sharing economy: il grande assente è il lavoratore” di Emanuele
Dagnino http://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2…