Da possibili fannulloni a stakanovisti inconsapevoli: benvenuti nell’era dell’ufficio “no-limits”!
Per colpa della tecnologia – cellulari, internet, banda larga, mail, Blackberry, tablet, Skype, teleconferenze… – spesso l’ufficio “viene a casa con noi” e l’impegno verso il lavoro così diventa praticamente senza soluzione di continuità. È la conseguenza della “24-hours economy”, una tendenza che comporta una non-distinzione netta fra vita professionale e personale, fenomeno sempre più marcato che secondo l’OMS può comportare anche gravi conseguenze alla salute.
22 Marzo 2011
Tiziano Marelli
Per colpa della tecnologia – cellulari, internet, banda larga, mail, Blackberry, tablet, Skype, teleconferenze… – spesso l’ufficio “viene a casa con noi” e l’impegno verso il lavoro così diventa praticamente senza soluzione di continuità. È la conseguenza della “24-hours economy”, una tendenza che comporta una non-distinzione netta fra vita professionale e personale, fenomeno sempre più marcato che secondo l’OMS può comportare anche gravi conseguenze alla salute.
Un illuminante servizio di Ettore Livini pubblicato sul quotidiano La Repubblica di lunedì 21 marzo svela scenari nuovi (e per molti versi finora non immaginabili) sull’attuale mondo del lavoro nel suo complesso. Al contrario da quanto prospettato dalle teorie di Keynes rispetto al fatto che la modernità con l’andare del tempo avrebbe affrancato l’uomo dalla schiavitù del lavoro consentendo, secondo l’economista inglese vissuto nella prima metà del secolo scorso e ritenuto fra i più accreditati e ascoltati teorici del settore (in pratica, da larghe schiere di osservatori quasi fino ai giorni nostri), “di dedicargli un massimo di 15 ore alla settimana”, si scopre adesso che la tecnologia hi-tech – l’articolo cita come esempio la diffusione di cellulari, internet, banda larga, mail, Blackberry, l’esercito dei tablet, Skype e teleconferenze – ha portato il nostro mondo, quasi senza che ce ne accorgessimo, nelle braccia di quella che gli inglesi chiamano “24-hours economy”. Un’era in cui, cito pari pari Livini, “non solo si lavora di più – da metà anni 70 il tempo passato alla scrivania o in fabbrica ha ripreso ad allungarsi – ma soprattutto non si riesce più a staccare la spina: ogni sera spegniamo il computer, timbriamo il cartellino e rientriamo in famiglia. Ma l’ufficio – complici le meraviglie della tecnica – viene con noi”; appunto: sotto forma di mail, videochiamate, file e documenti da controllare…
L’allarme sulla rivoluzione silenziosa conseguente al lavoro nell’era dell’ufficio “no-limits”, da prendere in serissima considerazione, è stato lanciato dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Al mondo, dicono le statistiche dell’International Labor Organization, un dipendente su cinque è impegnato oggi più di 48 ore alla settimana, zoccolo duro cui si è aggiunto adesso l’esercito di quanti sono costretti a spalmare sulle 24 ore la propria reperibilità lavorativa. L’Oms ha sottoposto a uno screening scientifico un numero corposo di elementi che fanno parte di queste categorie e alla fine della ricerca, dati inconfutabili alla mano, ha inserito il lavoro fuori orario tra le possibili cause di rischi sanitari: secondo questi studi questo tipo di “figura professionale” fa registrare possibili aumenti di contrarre patologie molto gravi che variano fra il 30 e l’80%. L’articolo cita nel particolare gli esempi del Giappone e della Corea del Sud. Nel paese del Sol Levante – dove la fedeltà e la produttività di un dipendente sono direttamente proporzionali al tempo dedicato alle attività professionali – diverse grandi aziende hanno dovuto pagare indennizzi stratosferici alle famiglie degli impiegati spremuti come limoni e poi stroncati dagli straordinari. Invece la Corea – che è recordman mondiale nel campo, con 2.301 ore all’anno di lavoro a testa, il 33% in più dell’Italia – ha dovuto varare un significativo “procreation day”, giorno in cui tutti sono costretti a tornare a casa alle 19 di sera e a non accendere più pc o telefonini fino al mattino seguente, con l’evidente obiettivo di far sì che i connazionali indefessi verso un tipo unico di dovere possano staccarsi con periodicità dalla compulsione operativo-professionale per dedicarsi alfine ai piaceri della vita coniugale.
Per tornare a prendere in considerazione la possibilità di riscoprire ritmi più “naturali” conviene anche rifarsi a quanto da tempo si è appurato scientificamente, cioè che l’essere umano (così come gli animali, e l’esempio viene da quello più produttivo di tutti, le api, che non si negano in nessun caso almeno nove ore di riposo assoluto) non è fatto per lavorare 24h24, visto che tutti noi siamo animati da cicli metabolici vitali complessi (sono almeno un centinaio) “legati a filo doppio all’alternanza giorno-notte, con alti e bassi nei loro valori che condizionano di molto la nostra efficienza mentale”. Non tenerne conto e farli sballare in maniera inconsulta può comportare un rischio elevato per la salute e anche una riduzione drastica della produttività: altro che contribuire ad aumentarla! Quindi, afferma un altro esperto citato da Repubblica, “un buon equilibrio tra lavoro, riposo e tempo libero è il segreto di un’economia che funziona”.
Tutto questo, mentre nel nostro Paese fino ad ora si è posto molto di più l’accento sul fenomeno di un generalizzato disimpegno – le ormai infinite diatribe sui “fannulloni” sono un esempio che può calzare bene – che non su quello dell’iperattivismo generalizzato e attuale creato dalla tecnologia diffusa, come invece sarebbe il caso.
Se ci pensiamo bene, per quasi tutti noi – in un modo o nell’altro – è diventato assolutamente normale “portare il lavoro a casa” la sera, e come minimo non riusciamo a negarci un’incursione professionale al desk casalingo per tenere tutto sotto controllo. Così, siamo passati in un batter d’occhio dal rischio di sentirci inseriti nella tutt’altro che benemerita categoria dei fannulloni, all’opposta e palpabile sensazione di rientrare a pieno titolo nella nuovissima categoria degli stakanovisti inconsapevoli.
In un caso o nell’altro, assolutamente niente di piacevole. Né, soprattutto, di salutare.