L’impresa sociale ci salverà? Verso il modello della filiera sussidiaria
Dopo aver inserito il social business nel Single Market Act, identificandone il carattere necessario per il rilancio della competitività europea, la Commissione gli ha dedicato una Iniziativa comunitaria lanciata lo scorso autunno. La questione al centro dell’attenzione di Bruxelles è bifronte: come integrare social business e social innovation da un lato, come usare i modelli del social business per riabilitare la funzione imprenditoriale in un momento di crisi del mercato, dall’altro. Abbiamo girato le questioni sul piatto a Giorgio Fiorentini, professore all’Università Bocconi e tra i massimi esperti italiani in tema di economia sociale. Dall’impresa sociale come impresa di salvataggio del profit in crisi alla spin–off sociale, ci conferma che si è ufficialmente aperta la stagione del social business. E sulla realtà italiana rilancia: “La prospettiva è quella della filiera sussidiaria”.
20 Febbraio 2012
Chiara Buongiovanni
Dopo aver inserito il social business nel Single Market Act, identificandone il carattere necessario per il rilancio della competitività europea, la Commissione gli ha dedicato una Iniziativa comunitaria lanciata lo scorso autunno. La questione al centro dell’attenzione di Bruxelles è bifronte: come integrare social business e social innovation da un lato, come usare i modelli del social business per riabilitare la funzione imprenditoriale in un momento di crisi del mercato, dall’altro. Abbiamo girato le questioni sul piatto a Giorgio Fiorentini, professore all’Università Bocconi e tra i massimi esperti italiani in tema di economia sociale. Dall’impresa sociale come impresa di salvataggio del profit in crisi alla spin–off sociale, ci conferma che si è ufficialmente aperta la stagione del social business. E sulla realtà italiana rilancia: “La prospettiva è quella della filiera sussidiaria”.
In una intervista sul tema Mario Monti aveva affermato: “Occorre cambiare marcia nella costruzione del mercato: non certo frenare, ma conciliare meglio gli aspetti del mercato e quelli sociali”. Questa è anche la posizione della Commissione europea che, dopo la Social Innovation Initiative, ha lanciato lo scorso autunno la Social Business Innovation. L’obiettivo è inserire l’imprenditoria sociale tra gli assi strategici per il rilancio della competitività del Mercato unico, la visione è integrare l’impresa sociale con l’innovazione sociale che avviene sui territori. Dunque l’innovazione sociale che incrocia il mercato. Ma come succede? Per capirlo abbiamo chiesto a Giorgio Fiorentini di aiutarci, innanzitutto, a tracciare l’identikit dell’impresa sociale o, come dicono a Bruxelles, del social business, di cui tanto ancora sentiremo parlare.
Cosa è in breve l’impresa sociale di cui tanto si parla a livello europeo e nazionale?
L’impresa sociale è una azienda privata che persegue finalità sociali (cioè non a scopo di lucro), o che comunque si orienta verso il low profit, quello che potremmo definire un lucro modesto. Con questo voglio dire non solo che lo “scopo del non lucro” non è un elemento necessario, ma che anzi l’evoluzione dell’impresa sociale, a mio modo di vedere, si orienta verso forme di redditività che vengono dette cappate (con cap ovvero con tetto). L’impresa sociale dunque opera nel mercato producendo beni e servizi con formula imprenditoriale. Rappresenta cioè una formula imprenditoriale, innovativa e che coinvolge, con modalità di partecipazione e democraticità, gli stakeholder interni ed esterni.
E nel variegato panorama italiano, cosa definirebbe impresa sociale?
Io considero che ci sono imprese sociali di sistema e imprese sociali ex lege. Nelle imprese sociali di sistema rientrano associazioni, cooperative sociali di tipo A e di tipo B, patronati, fondazioni, pro loco, ong, onlus, organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale. Nelle imprese sociali ex lege rientrano le organizzazioni che rispondono alla definizione del decreto legislativo 155/2006. Detto questo, per me la definizione da adottare è la prima e sulla stessa linea si muove la Commissione europea.
Quale è il rapporto dell’impresa sociale, così come l’ha descritta, con l’innovazione sociale?
Il rapporto tra impresa sociale e innovazione sociale è di profonda integrazione, precisando che l’innovazione sociale non agisce solo nel settore dei servizi sociali tradizionali, ovvero socio assistenziali, sanitari, previdenziali ma si allarga a un concetto molto più ampio di welfare. In questo senso direi che l’innovazione sociale va attivata proprio per realizzare un welfare più ampio di quanto tradizionalmente inteso. Il concetto di innovazione sociale non può essere un concetto chiuso nella dimensione del socio–assistenziale, perché l’uomo è un animale sociale che si esplicita e si esprime in modo olistico in tutte le sue manifestazioni. Quindi anche lo sviluppo culturale come il divertimento sono campi per l’innovazione sociale e dunque per l’impresa sociale.
In che modo, in un momento di crisi dell’economia di mercato come l’attuale, l’imprenditoria sociale può proporre un modello che rivitalizzi e riabiliti l’attività imprenditoriale?
I modi in cui questo può succedere sono diversi. Io ne identifico sostanzialmente tre, di cui uno legato ad una caratterizzazione generale, due legati a modelli di maggior dettaglio. L’aspetto di natura generale da considerare è la stessa formula imprenditoriale dell’impresa sociale che abbiamo definito di sistema. Rispetto alla formula “profit”, la formula dell’impresa sociale ha dalla sua alcuni elementi potenzialmente di maggior successo. Innanzitutto le imprese sociali sono più profilate rispetto alla domanda, a seguire hanno un break-even più basso, hanno costi inferiori rispetto agli altri due partner del sistema socio–economico (pubblico e privato profit), hanno maggiore motivazione interna rispetto al raggiungimento dei risultati. In sintesi, dal punto di vista generale la formula dell’impresa sociale può essere una formula che permette di avere un finalismo che non è quello della massimizzazione del profitto ma della massimizzazione relativa e, di conseguenza, permette di avere dei prezzi di vendita inferiori rispetto al prezzo di vendita del profit o al prezzo-tariffa esatto dal pubblico.
Se dovesse andare più nel dettaglio, a quali modelli di impresa sociale farebbe riferimento?
Il primo modello su cui stiamo lavorando in via sperimentale in Lombardia è l’impresa sociale come impresa di salvataggio di imprese profit in crisi. Qui mi riferisco all’impresa sociale ex lege, in quanto questa può costituirsi come società a rischio limitato e intervenire sulle imprese profit in crisi, in virtù del fatto che le persone in situazione critica di occupazione – cassa integrazione guadagni, cassa integrazione guadagni straordinaria e/o in mobilità – possono essere considerate come appartenenti a fasce deboli. L’idea è di rilevare queste imprese che altrimenti chiuderebbero e trasformarle in imprese sociali, orientandole su attività e settori che ovviamente siano in grado di generare una redditività.
Dunque la prima proposta è l’impresa sociale come impresa di salvataggio di imprese profit in crisi. La seconda?
Il secondo modello può definirsi come impresa sociale come spin-off. Si riferisce alla possibilità per le profit di generare spin-off, o come si dice in gergo, di spinoffare una impresa sociale che gestisca tutte le attività di welfare aziendale che solitamente sono previste all’interno dell’impresa "madre". Per fare degli esempi: dall’asilo nido, alla mutua integrativa, all’aiuto alle famiglie dei dipendenti che hanno problematicità con figli o con anziani.
Possiamo fare un esempio più dettagliato?
Certo.Possiamo immaginare, ad esempio, che una grande azienda dolciaria, costituita come Spa, che si chiama “Biscottificio X Spa” possa generare una spin-off che si chiama “Biscottificio X – impresa sociale srl”, senza distribuzione di utili, che assume tutte le attività di welfare aziendale che normalmente l’azienda svolge al suo interno. Portando fuori queste attività l’azienda genera una importante e positiva ricaduta nei confronti dei territori di riferimento, perché può trasferire una serie di servizi ai dipendenti delle PMI del territorio che non avrebbero la forza di sostenere un asilo nido piuttosto che servizi alle famiglie di altra natura. Il punto centrale è proprio questo: non si tratta di un servizio per i soli dipendenti dell’azienda “madre”, ma anche per l’intero tessuto socio-economico del territorio.
Esistono già esperienze di questo tipo in Italia?
Questa è una proposta. Quello che già esiste è un modello di filiera sussidiaria in cui il profit si avvale di no profit per determinati scopi e servizi . Il modello che propongo comporta però una strutturazione molto più sistematica, che sia capace di portare quello che potremmo definire un “vantaggio di territorio”. Bisogna rafforzare la filiera sussidiaria, aprendo ai soggetti attivi sul territorio e coordinandone effort e vocazioni.
Nella filiera sussidiaria che propone c’è un ruolo per la PA locale?
Assolutamente si. Nella filiera sussidiaria rientra la pubblica amministrazione, insieme alle imprese sociali e alle imprese profit. Questa è una ricetta che permetterebbe ai singoli soggetti coinvolti di poter mantenere l’equilibrio in un momento in cui i tre settori – pubblico, profit, no profit – vivono una crisi di sostenibilità. La pubblica amministrazione è chiamata ad entrare nella trama della filiera sussidiaria e a facilitarne l’attuazione, soprattutto in un momento quale l’attuale di profondissima crisi di liquidità e di conseguenza di crisi del welfare e dei servizi sociali. Già allo stato attuale i servizi sociali dei maggiori comuni italiani, in percentuali bulgare, sono gestiti da imprese sociali, nell’accezione generale precedentemente delineata. Questo è un dato di fatto e probabilmente da qui bisognerà ripartire.
Nel tessuto socio-economico italiano riscontra particolari criticità in riferimento ai modelli che lei propone?
Che ci possano essere criticità rispetto alla diffusione e implementazione di nuovi modelli è ineluttabile. Ma il punto su cui mi soffermerei è un altro. Se sono veri i dati che leggiamo tutti i giorni dobbiamo avere ben chiaro che a un certo punto finiranno gli ammortizzatori sociali e allora bisognerà che da qualche parte le persone possano trovare delle opportunità di lavoro. Ora, non sto dicendo che con questa proposta risolviamo il problema dell’occupazione in Italia, ma è una delle modalità per fare in modo che si strutturino delle classi di ammortizzatori sociali che siano attivi e non passivi. Perché, allo stato attuale, l’ammortizzatore sociale – dalla disoccupazione ordinaria a quella straordinaria – è uno strumento “riparativo” e non sostanzialmente di rilancio. Intendo dire che, partendo da quella che è una necessità di fatto, dobbiamo aver chiaro che urgono proposte operative che vadano in questa direzione. Se anche i modelli che propongo non fossero i più adatti, bisogna allora far emergere altre proposte che abbiano la “logica della canna da pesca” non del “pesce” offerto. Possiamo partire da esperienze che si avvicinano a questa logica che, pur se in numero ridotto, in Italia già ci sono. Un esempio su tutti, l’esperienza del Consorzio di cooperative In Concerto, in provincia di Treviso.
Come l’impresa sociale si scontra con il problema più generale dei ritardi della pubblica amministrazione nei pagamenti alle imprese?
Questo è un problema generale che riguarda il profit come il no profit, con l’aggravante, nel caso del no profit, che spesso rischia di rimanere scoperto un servizio alla persona. Evidentemente bisognerà lavorare sul fronte pubblica amministrazione, ma una soluzione – per quanto parziale – potrebbe venire anche dall’interno delle imprese sociali. Mi riferisco all’attività di fundraising che In Italia rappresenta una soluzione ancora poco praticata. Il grande limite qui è che le imprese sociali spesso non hanno cultura aziendale e dunque mancano del supporto organizzativo necessario ad una attività di fundraising efficace.
Dunque l’impresa sociale italiana ha necessità di rafforzare la propria identità aziendale?
Io direi di si, perché l’impresa sociale tende ad avere una motivazione molto forte sulla prestazione e sul servizio, ma non altrettanto si può dire sull’organizzazione interna e sulla capacità di creare e mantenere le condizioni di gestione dell’azienda stessa. Sebbene questo sia stato un punto “caldo” nel dibattito passato è un dato di fatto che oggi molte imprese sociali senza una strutturazione aziendale non riescono a sopravvivere. Per questo dico che le imprese sociali sono aziende, pur con le loro peculiarità. E, in ultimo ma non da ultimo, sottolineo che essere azienda vuol dire avere equilibrio socio-economico ed equilibrio economico – finanziario e che tale equilibrio spesso passa, di necessità, attraverso l’integrazione con altre aziende per poter avere delle economie di scala, di scopo e di esperienza.