“L’ascolto come valore: per una sanità più umana e più efficiente” di Enzo Ghigo

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I medici troppo spesso non sviluppano la capacità di ascoltare il paziente e pensano di poter vivere di soli risultati e referti. Forse non tutti sanno che questo influisce anche sulla spesa sanitaria. Perchè? Ce lo spiega il Prof. Ezio Ghigo, Direttore della Scuola di Medicina dell’Università degli Studi di Torino, che sottolinea la necessità di ripensare le modalità formative, rimettendo la relazione medico-paziente al centro del tirocinio per la  professione medica.

11 Settembre 2013

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Redazione FORUM PA

Articolo FPA

I medici troppo spesso non sviluppano la capacità di ascoltare il paziente e pensano di poter vivere di soli risultati e referti. Forse non tutti sanno che questo influisce anche sulla spesa sanitaria. Perchè? Ce lo spiega il Prof. Ezio Ghigo, Direttore della Scuola di Medicina dell’Università degli Studi di Torino, che sottolinea la necessità di ripensare le modalità formative, rimettendo la relazione medico-paziente al centro del tirocinio per la  professione medica.

Che importanza ha oggi nella formazione del medico il tema della relazione con il paziente?

È un tema cruciale ma, ahimè, dimenticato: il medico impara a ragionare in termini di segni e sintomi – sintomi che gli vengono raccontati e segni che può osservare direttamente – e il racconto del paziente passa necessariamente attraverso una relazione che influisce direttamente sul modo di raccontare. La capacità di entrare in relazione, se non viene coltivata, si perde. Certo alcuni vi possono essere più portati e altri meno, ma questa capacità, così fondamentale nella professione, non può essere lasciata solo a chi ha naturali predisposizioni.

C’è poi un altro insegnamento su cui i vecchi medici insistevano: se si affina la capacità di ascolto si ha più probabilità di capire cosa il paziente abbia, ed è ovvio che il racconto del paziente sia tanto più significativo quanto più si crea un clima che permetta alla persona di esprimersi liberamente. Uno dei migliori medici che ho conosciuto, eccellente per scienza e sapienza tecnica, per sua timidezza metteva così a disagio i pazienti che questi si sentivano, in sua presenza, come studenti di fronte ad una commissione d’esame. Questo è un limite ed un peccato, perché in assenza di una buona capacità relazionale diviene difficile anche valorizzare la propria competenza tecnico-scientifica.

Esiste un rapporto diretto tra la capacità relazionale del professionista della salute e i costi della sanità?

Uno dei motivi principali della spesa sanitaria impropria è che, in preda alla paura e a volte all’isolamento, il paziente si rivolge di continuo al medico chiedendo sempre ulteriori accertamenti clinici. Soltanto una salda relazione col paziente consente di "rifiutare" l’ennesima richiesta, magari ansiogena, di ulteriori accertamenti diagnostici. Credo quindi che una forte educazione alla relazione possa avere un impatto significativo proprio sull’eccessiva spesa diagnostica. Se abbiamo, ad esempio, una spesa per risonanze magnetiche superiore alla media europea dobbiamo interrogarci sul motivo di tale discrepanza, che probabilmente risiede in misura considerevole nell’approccio al paziente.

Il medico è passato da un tempo in cui disponeva essenzialmente solo di parola ed ascolto ad una fase in cui – lo si è lasciato credere ai giovani medici! – si pensa di poter vivere di soli risultati e referti, e in questo l’Università ha purtroppo una responsabilità rilevante. Il mestiere di medico ha una componente artigianale notevole, il che significa che se da un lato è necessario offrire un’impostazione metodologica rigorosa, dall’altro si deve creare un contesto formativo che permetta agli studenti di "rubare" il mestiere. Questo diventa possibile solo ottimizzando meglio i momenti di tirocinio attivo: il mestiere non si può rubare se si è in uno "stadio", ma soltanto se si lavora in pochi a diretto contatto con i professionisti che devono fungere da esempio.

Il problema dei nostri tempi è la fretta, ma in un contesto in cui non c’è tempo per nulla diventa difficile organizzare al meglio sia la relazione che l’insegnamento: la fretta porta naturalmente ad un atteggiamento difensivo. Certo, dire "non ho tempo" è spesso una scusa che maschera l’assenza di motivazione alla relazione, che in realtà può essere imbastita anche in tempi brevi, tuttavia non si può ignorare come questo problema sia sempre più strutturale, tanto che la professione medica acquisisce sempre di più una veste impiegatizia e di conseguenza si avverte uno sfondo crescente di insoddisfazione.

Perché secondo lei un tirocinio specifico alla relazione con il paziente può completare il quadro della formazione curriculare dello studente in medicina? Non sono sufficienti i normali tirocini clinici?

La Scuola di Medicina deve trasmettere agli studenti l’importanza del rapporto col paziente: questo è il motivo del percorso formativo "Le Vite degli Altri". Il corso rappresenta l’opportunità di trasmettere un approccio metodologico serio allo studente in ordine alla questione della relazione e della sua importanza nel contesto della professione medica. L’università italiana – e non solo – non ha più da tempo nessuna tradizione di insegnamento del valore della relazione intesa proprio come opportunità di alimentare la percezione di segni e sintomi. Rimane infatti fondamentalmente vero che il medico osserva dei segni e ascolta dei sintomi che il paziente gli racconta e li decodifica come segni ulteriori, e in questo la capacità di ascolto rimane essenziale.

L’università purtroppo non è attrezzata a supportare né in via teorica né pratica l’apprendimento di questo "atteggiamento" professionale, per cui iniziative di rottura come il progetto di cui stiamo parlando sono un momento essenziale di ripensamento delle modalità formative sedimentate nel tempo. Questo ripensamento è sempre più necessario, come testimoniato dal crescente successo delle cosiddette medicine alternative, che fanno proprio dell’ascolto la loro principale peculiarità.  

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