Le sfide della ricerca scientifica

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"La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica" così recita l’articolo nove della Costituzione Italiana eppure sul versante dell’investimento nel sistema di Ricerca e Sviluppo, tra il 2002 ed il 2005 la quota di Pil destinata a questo scopo, da anni al di sotto dei livelli registrati nei principali Stati membri dell’Unione Europea, si è contratta ulteriormente (fonte: rapporto Censis 2008).
Se da un lato è necessario che la politica ristabilisca un ordine di priorità funzionale allo sviluppo del nostro Paese è pur vero che aspettare Godot non paga ed è quindi necessario, oltre che urgente, sviluppare modelli in grado di emanciparsi. Ne abbiamo parlato con Giancarlo Michellone, figura storica della ricerca in Fiat negli anni del boom economico, e attuale presidente del Consorzio Area Science Park di Trieste.

28 Gennaio 2009

L

L.P.

Articolo FPA

"La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica" così recita l’articolo nove della Costituzione Italiana eppure sul versante dell’investimento nel sistema di Ricerca e Sviluppo, tra il 2002 ed il 2005 la quota di Pil destinata a questo scopo, da anni al di sotto dei livelli registrati nei principali Stati membri dell’Unione Europea, si è contratta ulteriormente (fonte: rapporto Censis 2008).
Se da un lato è necessario che la politica ristabilisca un ordine di priorità funzionale allo sviluppo del nostro Paese è pur vero che aspettare Godot non paga ed è quindi necessario, oltre che urgente, sviluppare modelli in grado di emanciparsi. Ne abbiamo parlato con Giancarlo Michellone, figura storica della ricerca in Fiat negli anni del boom economico, e attuale presidente del Consorzio Area Science Park di Trieste.

Presidente, l’Area Science Park è un esempio positivo delle sinergie che si possono creare tra il mondo della ricerca e quello dell’imprenditoria. Quali sono le chiavi di questo successo e perché è un modello che difficilmente riesce a replicarsi altrove?
La prima chiave del successo è il fatto che circa 12 anni fa si sono inseriti nella struttura dei manager provenienti dal mondo industriale della ricerca e dello sviluppo. Essi hanno portato una buona conoscenza del mondo imprenditoriale (conoscenza vissuta e non solo libresca) e hanno saputo integrarsi con l’organizzazione esistente.
La seconda è la mobilità dei suoi addetti che negli ultimi anni è in media del 7-8%. Per replicare il nostro modello le basi sono queste iniezioni di imprenditorialità nel settore della ricerca pubblica e mobilità fra mondo scientifico e le imprese. Non ultimo un ambiente di base favorevole alla ricerca e all’innovazione com’è il Friuli Venezia Giulia.

In un suo recente intervento, a proposito della crisi della ricerca, lei ha parlato della necessità di “fare di più con meno”. Può spiegarci quali sono le carenze della ricerca e dove occorrerebbe “tagliare”?
La carenza principale in Italia, a differenza di altri paesi industrializzati, è che si fa abbastanza ricerca ma assolutamente troppo poca “gestione strategica e operativa” della ricerca stessa. La situazione è paradossale: da un lato la gestione è, di solito scarsa, dall’altro lato il personale di “staff”, che più degli altri dovrebbe occuparsene, è ridondante e frenato da mille pastoie burocratiche. Serve una riorganizzazione sintetizzabile in uno slogan: “un ragioniere in meno ed un ricercatore in più”. Poi, sia il “ragioniere” che resta, sia i ricercatori vanno liberati dai lacci e lacciuoli della burocrazia. Occorre poi formare entrambi al contenimento dei costi e allo snellimento delle strutture amministrative, puntando a valorizzare le competenze distintive di un’organizzazione e affidando a terzi le competenze diffuse e reperibili all’esterno a costi minori.

Quali altri interventi ritiene sia importante realizzare?
Un altro nodo cruciale su cui bisognerebbe insistere è l’acquisizione di nuove fonti di finanziamento. I tagli da soli possono essere molto pericolosi. Questi devono sempre essere accompagnati dalla ricerca, costante e professionale, di fonti di finanziamento alternative mediante la valorizzazione dei punti di forza che ogni ente deve saper individuare e far certificare dai suoi “clienti” che lo finanziano.
Questi interventi devono poi essere supportati dall’enfasi sulla finalizzazione della ricerca e sul trasferimento tecnologico, realizzati e non solo dichiarati a parole.
Bisogna diffondere rapidamente la cultura del risultato trasferibile all’utente finale. I ritorni, per il mondo della ricerca, vanno misurati non solo in termini di crescita della conoscenza, dell’immagine, della motivazione ad investire nelle attività di ricerca ed innovazione, ma, anche e soprattutto, come ritorni economici ed occupazionali.

Torniamo agli investimenti: troppo pochi o sconsiderati?
Mi permetto di essere brutale: fino a quando si finanzia la ricerca senza avere chiaro per quale motivo si spende, si spende sempre troppo perché si spreca molto. Serve una netta distribuzione preliminare fra la ricerca per la conoscenza e quella per la competitività.
Lo scopo ultimo di qualsiasi tipo di ricerca è il miglioramento della qualità della vita. Questo lo si può conseguire in tempi brevi, medi, lunghi, lunghissimi o mai. In funzione del tempo, presunto, di impatto della ricerca sulla nostra vita quotidiana si può semplicemente distinguere fra la ricerca per produrre conoscenza, o ricerca base, e quella per produrre competitività, che comprende la ricerca applicata, i vari tipi di sviluppo dei suoi risultati e le diverse forme di innovazione. Si dice che in periodi complessi e di rapidi cambiamenti non ha più senso distinguere fra i due tipi di ricerca: essi non sono più in sequenza. Infatti la conoscenza genera innovazioni che, a loro volta, propongono nuove sfide in molti settori industriali e richiedono nozioni nuove, fra loro integrate, in tempi sempre più ristretti. Insomma ricerca base ed applicata, sviluppo ed innovazione sono un groviglio inestricabile di cause ed effetti intimamente connessi. Il che è vero e falso nello stesso tempo.

In che senso?
Conoscenza e competitività sono profondamente interconnesse ma è falso pensare che ciò avvenga in modo automatico. Anzi, la vera sfida della competitività è connettersi con la conoscenza prima e meglio dei concorrenti. Ed è tutt’altro che facile.
La natura dei due tipi di ricerca è sostanzialmente diversa. Differiscono gli obiettivi, i clienti, i risultati, i valutatori dei risultati e, sovente, anche per le politiche di sostegno e per gli enti finanziatori. Chi fa ricerca per produrre conoscenza è un esploratore che avanza nella prateria dell’ignoto. Il suo obiettivo è ampliare la frontiera della conoscenza stessa. Non ha clienti già individuati. Di fatto se ne è creato uno virtuale: la Comunità Scientifica che dovrebbe (dovrebbe!) valutare i suoi risultati. Nel mondo reale, non sempre ma sovente, la Comunità Scientifica si comporta come una banda di comancheros che mira agli scalpi degli esploratori. Tuttavia la miglior difesa per lo scienziato è la diffusione, la più ampia possibile, dei risultati raggiunti. Invece la ricerca per produrre competitività ha l’obiettivo di trasformare le idee nuove in prodotti innovativi e vincenti sui mercati con un giusto ritorno per gli stakeholder.

Cosa intende per prodotti?
Per prodotti si intendono: i prodotti veri e propri; i processi produttivi ed organizzativi, i servizi ed i metodi di lavoro interni ed esterni alle organizzazioni coinvolte “dall’idea al mercato”. Il primo cliente è l’impresa che valuta l’idea innovativa e stima le risorse necessarie ed i rischi per trasferirle nei suoi mercati reali e potenziali. Il cliente iniziale è anche il primo valutatore e, nei casi ideali – troppo pochi in Italia – è anche il primo finanziatore della ricerca. Purtroppo non sempre il primo cliente è quello giusto, cioè quello che può portare le conoscenze innovative sul mercato nel modo più facile e con maggiore impatto: una fra le cause principali è che ormai i prodotti sono caratterizzati dall’uso di tecnologie trasversali a più settori industriali, come l’elettronica, l’informatica, la telematica, le micro e nanotecnologie… Diventa, pertanto, strategico definire, prima di un avvio imprenditoriale, quale è il miglior percorso dell’innovazione. E’ necessario definire e focalizzare le risorse sulle “applicazioni clamorose”, quelle, cioè, che offrono all’innovazione più probabilità di affermarsi in un settore con ritorni economici tali da consentirne l’introduzione successiva in altri.
Inoltre, per avere successo su un mercato, l’innovazione tecnologica non basta, ma va integrata con quella economica, organizzativa, di marketing e distributiva.

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