Social Innovation è anche questione di competenze professionali e ambiti occupazionali
Social innovation: quali sono le professionalità connesse ed il suo potenziale occupazionale? In che modo la ‘social innovation’ può veramente fare la differenza? Domande utili per inquadrare questo nuovo approccio culturale ‘cross sector’ in un momento in cui moltissimi ne parlano ma pochi ne comprendono ancora le implicazioni.
7 Maggio 2014
Marco Crescenzi *
Social innovation: quali sono le professionalità connesse ed il suo potenziale occupazionale? In che modo la ‘social innovation’ può veramente fare la differenza? Domande utili per inquadrare questo nuovo approccio culturale ‘cross sector’ in un momento in cui moltissimi ne parlano ma pochi ne comprendono ancora le implicazioni.
La definizione che preferisco è quella – storica – che recita: “Definiamo innovazione sociale un’innovazione che è sociale tanto nelle sue finalità che nei suoi mezzi. Più specificatamente, l’innovazione sociale è un insieme di nuove idee (prodotti, servizi e modelli) che rispondono a bisogni sociali in maniera più efficace di altri e al contempo creano nuove interazioni e collaborazioni sociali[1]’
In un paese come l’Italia, ancora organizzato per clan, correnti, ‘parrocchie’- spesso “n’drine”-, e per questo impossibilitato ad oggi a fare sistema, ci sembra evidente che la parte finale della citazione sia quella più significativa: “….nuove interazioni e collaborazioni sociali’.
E’ una novità assoluta? Certamente no. Potremmo andare a ritroso, e ricordare le esperienze di sviluppo locale partecipativo di Dolci e Barbera negli anni ‘60, le esperienze di bilancio comunale partecipativo in Brasile negli anni 90, le esperienze degli ‘HUB’ tra UK e California, il potenziale socialmente innovativo delle prime cooperative sociali di integrazione lavorativa che a fine anni ’70, grazie alla legge Basaglia, tolgono i matti dal manicomio per creare ostelli e circuiti turistici.
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Perchè lavorare in una logica di ‘social innovation’ è importante e, soprattutto in Italia, più che mai urgente?
A mio avviso per tre motivi fondamentali:
1. Perchè l’innovazione sociale è oggi sempre più percepita da vari attori di diversi settori come il miglior ‘modo’ (paradigma) di fare cambiamento sociale, in quanto ‘obbliga’ gli attori a sedersi intorno al tavolo dei bisogni sociali, a stabilire ‘nuove relazioni e collaborazioni’ per risolvere i problemi attraverso le migliori soluzioni. Tutti i players quindi- e non solo il Terzo Settore, i Sindacati ed il Pubblico! – fino ad oggi gli unici candidati ufficiali a ‘salvare il mondo’ (con assai dubbi risultati). Tutti intorno al tavolo (dei problemi sociali) e dunque… tutti co-responsabili. E’ la logica (e retorica) del “Co-” : co-creazione, co-progettazione, co-design, co-thinking, co-working -che ‘per essere’ ha bisogno di approcci ‘visual’ (vedi il Business Model Canvas) e digitali.
2. Perchè i governi e l’Unione Europea hanno capito che ‘mettere a sistema’ innovazioni e pratiche collaborative può condurre a migliori soluzioni all’interno di un forte risparmio di costi. E quindi possono ulteriormente tagliare risorse pubbliche ‘dirette’ per il sociale dando meno ‘risorse’ ma più ‘capacitanti’ e fondi per l’innovazione: in tal senso l’esperienza del Governo UK con NESTA è esemplificativa, così come tutta la programmazione Europa 2020 tesa a favorire l’innovazione non più solo tecnologica ma anche sociale, con programmi quali Easi, Social Business Initiative, Smart Cities, Horizon 2020 ed in genere un approccio ‘trasversale’.
Nel ‘pubblic procurement’ il progressivo passaggio dal ‘bando di gara’ alla ‘social competition’ creativa rientra in questo trend, e va a vantaggio di chi ha idee invece/oltre ché clientele.
3. Perchè la voglia di ‘disintermediazione’ e di economia collaborativa ‘sharing’ e ‘smart’ sta diventando un fenomeno di massa, favorito dalle piattaforme digitali e dalle Apps, sviluppandosi anche in alternativa ai tradizionali poteri forti per tradizione ‘detentori’ (pensiamo solo a Banche/Finanza vs Crowdfunding/Social Finance), coinvolgendo i cittadini nell’autorganizzazione e sostegno reciproco.
Eppure c’è un ‘ma’ ed è che senza ‘concetti e termini’ chi voglia fare ‘progetti innovativi’ rischia solo di fare ‘progetti nuovi’ all’interno di vecchi paradigmi’ di solito autoreferenziali e solo ‘strumentalmente’ partecipativi.
La ‘social innovation’ si è posta all’attenzione in Italia negli ultimi quattro anni grazie all’impegno svolto in particolare da ASVI (nell’ambito del terzo settore e della formazione manageriale), da Forum Pa (per la Pubblica Amministrazione), da I-SIN – Italian Social Innovation Network (intersettoriale), dalla rete degli ‘Impact Hub’. In Europa – soprattutto in UK- grazie all’impegno di Young Foundation, SIX-Social Innovation Exchange e Nesta-l’agenzia Inglese per la Social Innovation, un impegno rapidamente recepito da parte della Commissione Europea.
La formazione per la social innovation
Girando l’Italia ed in particolare il Sud con colleghi come Gianfranco Marocchi di Idee in Rete (uno dei pochi in ambito cooperazione sociale che abbia compreso a fondo la portata della sfida) o confrontandomi con i manager di Nesta, Young Foundation ed altri, ci siamo resi conto che era necessario un forte approccio formativo e manageriale alla Social Innovation, a fronte di sicure prospettive occupazionali.Da tali bisogni è nata l’idea di MES – il primo Master italiano in Social Innovation, Social Business e Start Up sociale, proposto da ASVI Social Change in modalità integrata e-leraning e laboratorio aula. Il Programma è Diretto da Marco Zappalorto di Nesta UK e da Gianfranco Marocchi Presidente di Idee in Rete (Consorzio di 500 imprese sociali italiane), con il qualificato contributo anche di Forum PA.
Il Programma ha la ‘missione’ di formare professionisti e manager dell’innovazione sociale, contaminare mondi come quello del non profit italiano – nel frattempo un po’ invecchiato ma ricco di radici, esperienze e relazioni- con quello dei giovani ‘startuppers’ ricchi di idee ma spesso evanescenti e poco solidi- e con i rami ‘verdi’ delle amministrazioni locali.
Creare un profilo professionale a forte vocazione progettuale di sicuro interesse e possibile sbocco occupazionale sia nel terzo settore (ONG incluse), che nelle ‘startup a vocazione sociale’ dal 2013 previste nella nostra legislazione, sia nella collaborazione con la PA, che nell’ambito dello sviluppo locale, della sharing economy, dell’Europrogettazione e, trasversalmente, di tutti i settori dove ci sia necessità di co-progettare soluzioni innovative ‘cross sector’.
E’ curioso notare come in mondo in cui sempre più l’apprendimento è in rete e collaborativo, con piattaforme di ottimo livello come Skillshare, Coursera o Conversation Exchange, Apps come ‘memorize’ e webinar sul Tutto, un programma formativo molto strutturato che offra relazioni sul mercato, profili professionali strutturati e certificati, bacini dinamici di esperienza, stage sul campo e coaching per lo start up, rimane di fatto ancora insostituibile.
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*Marco Crescenzi è Presidente di ASVI Social Change
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– 27 maggio (mattina) “Coinvolgere i cittadini e co-creare soluzioni. Modelli e pratiche a confronto"
– 27 maggio (pomeriggio) "Dal governo con la rete allo stato partner. Favorire la collaborazione e la partnership tra i diversi attori sociali, economici, culturali e istituzionali"
– 29 maggio (mattina) “Twist and Share. La PA alla svolta dell’economia collaborativa”, in collaborazione con OuiShare Italia, Collaboriamo e Hopen
La Redazione FORUM PA
[1] Caulier-Grice J., Kahn L., Mulgan G., Pulford L., Vasconcelos D., Study on Social Innovation: a paper prepared by the Social Innovation eXchange (SIX) and the Young Foundation for the Bureau of European Policy Advisors, Young Foundation/European Union (2010)