Tra 10 anni l’università italiana troverà un suo equilibrio. Nel frattempo…

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L’università italiana si trova in uno dei suoi periodi più duri. Costretta a cambiare paradigma sia organizzativo che economico, è in realtà schiacciata tra contraddizioni che generano incertezza e confusione. Quali sono gli strumenti su cui puntare per uscire da questo impasse? Un recente incontro al Politecnico di Torino ha provato a fare il punto analizzando i diversi temi d’attualità, dal trasferimento tecnologico in un paese a crescita zero, alla riforma Gelmini, al ruolo dei privati nell’Università pubblica. Ne abbiamo discusso con il curatore dell’evento Francesco Vaccarino.

31 Gennaio 2011

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Tommaso Del Lungo

Articolo FPA

L’università italiana si trova in uno dei suoi periodi più duri. Costretta a cambiare paradigma sia organizzativo che economico, è in realtà schiacciata tra contraddizioni che generano incertezza e confusione. Quali sono gli strumenti su cui puntare per uscire da questo impasse? Un recente incontro al Politecnico di Torino ha provato a fare il punto analizzando i diversi temi d’attualità, dal trasferimento tecnologico in un paese a crescita zero, alla riforma Gelmini, al ruolo dei privati nell’Università pubblica. Ne abbiamo discusso con il curatore dell’evento Francesco Vaccarino.

Francesco Vaccarino è ricercatore presso il dipartimento di Matematica del Politecnico di Torino e quando, dopo un appostamento di una settimana, riusciamo a contattarlo per un’intervista sui temi del convegno “Ricerca, formazione e trasferimento tecnologico per uscire dalla crisi” organizzato il 14 gennaio scorso dal Politecnico capiamo immediatamente che un ricercatore ha meno tempo libero di quello che pensavamo.
Tra le cose che ci rimangono più impresse di una lunga chiacchierata svolta a più riprese, utilizzando i “tempi morti” degli spostamenti tra i moltissimi impegni di Vaccarino (riunioni, lezioni, colloqui, incontri, convegni e… eventi familiari) c’è una riflessione sulla gestione delle competenze nell’Università pubblica italiana. “L’università italiana – spiega – è un’organizzazione medioevale, in cui un gruppo di persone studia per diventare eccelso. Una volta raggiunto quel livello, quelle persone hanno pieni poteri, nel senso che devono fare tutto. Noi formiamo sapienti a cui poi chiediamo di svolgere altri compiti. L’idea che uno perché conosce bene la meccanica quantistica possa essere un bravo manager o un bravo fund raiser o un esperto di budget è un’idea semplicemente assurda”.
Insomma mentre le strutture del mondo produttivo si sono affinate, l’Università è rimasta la stessa.

Ma torniamo all’inizio e al tema della nostra intervista: quale è il ruolo dell’Università in un paese a crescita zero?
“Potrei dare due risposte – ci spiega – che sono poi quelle uscite durante il convegno. La prima è di lungo periodo ed è che l’università potrebbe essere il luogo in cui si disegnano dei nuovi modi di produrre e di concepire il valore e l’economia stessa. Un’Università come laboratorio di innovazione sociale ed economica quindi. La seconda, invece, più conforme alle regole, è la visione di un’Università che fa crescere una nuova classe dirigente, che incrementa le conoscenze e che produce ricerca e, soprattutto, innovazione e trasferimento tecnologico.”

Tutto questo, però, a fronte di un taglio drastico dei finanziamenti?
Vaccarino la prende alla lontana e ci spiega come se stessimo assistendo ad una lezione di ingegneria dei sistemi: “Vede, qualunque produzione ha degli sfridi, cioè delle perdite, dai pezzi difettosi ai materiali di scarto, e ciò avviene nella produzione di qualunque cosa, dalle automobili alla ricerca. Nei decenni passati l’università italiana ha vissuto su un sistema di finanziamenti a pioggia che ha generato sfridi eccessivi. Oggi siamo agli sgoccioli. I soldi non ci sono più e dal Ministero ci viene detto «o eliminate gli sfridi o vi arrangiate», e con ciò implicitamente ci stanno chiedendo di trovare nuovi clienti (l’Europa e le aziende private)”.

Quindi in teoria si tratta di uno sprone positivo?
“La legge sull’università contiene un elemento positivo: ci obbliga a ridefinire le nostre finalità. Tuttavia essa pretende di intervenire sui processi dell’università senza intervenire sugli scopi. Qualunque ristrutturazione, infatti, prevedrebbe degli obiettivi, un disegno, una mission. Invece noi oggi non sappiamo quale è il ruolo che il Paese sta dando all’università del futuro, ci stanno dicendo di cambiare per sopravvivere, ma non ci danno uno scopo”.

Beh lo scopo dell’università resta quello della triplice elica no? Formazione, ricerca e Trasferimento tecnologico.
“Si ma vede, su nessuno dei tre la riforma è chiara. Sulla formazione ad esempio, le linee di indirizzo che già traspaiono da varie circolari ministeriali e dal taglio lineare dei finanziamenti, sembrano spingere in direzione della trasformazione dell’Università in un mega-liceo, un contenitore di giovani che, in questo modo, non rientrano nelle statistiche sulla disoccupazione. Siamo molto lontani dagli obiettivi chiari che si stanno dando tutti i paesi occidentali e le super potenze asiatiche: puntare alle creazione di élite di scienziati-tecnocrati che saranno le guide del futuro”.

E sui temi della ricerca e del trasferimento tecnologico invece?
“Lì in effetti qualche cosa di positivo c’è stato e mi riferisco all’introduzione del paradigma della valutazione che per molti è stato un vero e proprio shock. Tuttavia anche qui le università ricevono messaggi contrastanti: il punto è che il fund raising non è un’attività da fare a latere dell’insegnamento o della ricerca, ma è un lavoro. Un lavoro per cui la maggioranza delle università non è attrezzata. O meglio per fare fund raising servono competenza, risorse, persone e contatti che oggi hanno solo alcune strutture di alcune Università. Per trovare finanziamenti occorrono livelli di ricerca eccellenti, energie e persone. Invece, contemporaneamente, ci si chiede di seguire sempre più studenti e di avere sempre meno collaboratori e sempre più anziani. Abbiamo compiti in conflitto e la sfida è riuscire a far quagliare questa equazione, sopravvivendo alla quotidianità.”

In questo ruolo di vacanza di missione, quindi, ognuno è chiamato a definirsi la propria?
"Sì in parte è così e alcune Università lo stanno già facendo da anni, mettendo in atto collaborazioni con privati, ma ci muoviamo sempre all’interno di un vuoto di missione generale. Provare ad andare sul mercato e a “giocarsela” su quel terreno non è possibile, infatti, se tutti i titoli di studio hanno un valore legale equivalente per legge".

Allora come pensate di organizzarvi?
"Alcune Università come i Politecnici hanno maggior facilità a dialogare con le imprese, perché sono università professionalizzanti in cui i docenti hanno maggiori contatti con il mondo produttivo. Le università più “classiche”, invece, abituate ad una logica diversa, fanno un po’ fatica, ma è logico che si farà di necessità virtù. In questo momento paghiamo decenni di corporativismo e di spreco. Tra una decina di anni credo che il sistema riuscirà a trovare un equilibrio. Volendo trovare una nota positiva… siamo sopravvissuti a cose peggiori".

E così chiudiamo l’intervista con questa nota di “speranza”: tra dieci anni le università italiane troveranno un loro modello organizzativo ed economico… il resto del mondo, invece, sta lavorando oggi sulle università, per avere tra dieci anni modelli di sviluppo differenti.
 

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